THOMAS PIKETTY. Quelle verità nascoste nel regno dell’austerity

by redazione | 14 Ottobre 2015 14:46

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La cosa più triste, nella crisi europea, è l’ostinazione con la quale i leader al potere presentano la loro politica come l’unica possibile, e il loro timore per ogni scossa politica che possa alterare anche solo di poco l’attuale quadro istituzionale. La palma del cinismo spetta sicuramente a Jean-Claude Juncker, il quale, dopo le rivelazioni di LuxLeaks, spiega
tranquillamente all’Europa sbalordita di non aver avuto altra scelta, quand’era alla testa del Lussemburgo, se non quella di gonfiare la base fiscale dei suoi compatrioti: «L’industria declinava, vedete, dovevo pur trovare una nuova strategia di sviluppo per il mio paese; che cos’altro potevo fare se non trasformarlo in uno dei peggiori paradisi fiscali del pianeta?». I paesi vicini, alle prese anch’essi da decenni con la deindustrializzazione, apprezzeranno. Oggi non basta più scusarsi: è tempo di ammettere che sono le stesse istituzioni europee a essere chiamate in causa, e che solo una rifondazione democratica dell’Europa può aiutare a portare avanti politiche di progresso sociale. In concreto, se si vuole davvero evitare il ripetersi di scandali LuxLeaks, occorre rinunciare alla regola dell’unanimità in materia fiscale, e prendere tutte le decisioni in fatto di imposte sulle grandi società (e idealmente sui redditi e i patrimoni più elevati) a maggioranza. E se il Lussemburgo e altri paesi dicono no, il loro no non deve impedire ai paesi che dicono sì di costituire un nocciolo duro che proceda da solo lungo la strada tracciata, e di adottare le sanzioni necessarie contro chi continua a voler approfittare dell’opacità finanziaria dominante.
La palma dell’amnesia spetta invece alla Germania, con la Francia come fedele secondo. Nel 1945 i due paesi avevano un debito pubblico superiore al 200% del pil. Nel 1950 esso era sceso a meno del 30%. Che cosa accadde? Svincolarono di colpo le eccedenze di bilancio, per rimborsare un debito del genere? Evidentemente no: solo con l’inflazione e il ripudio puro e semplice — in una parola la cancellazione — del debito, Germania e Francia si sono sbarazzate nel secolo scorso del debito stesso. Se avessero tentato di svincolare pazientemente e annualmente eccedenze dell’1 o del 2% del pil, oggi sarebbero ancora lì, più o meno allo stesso punto, e sarebbe stato più difficile per i governi del dopoguerra investire nella crescita. Eppure oggi sono questi due paesi a continuare a dire, dal 2010-2011, ai paesi del Sud Europa, che il loro debito dovrà essere rimborsato fino all’ultimo euro. Si tratta tuttavia di un egoismo miope, perché proprio il nuovo Patto di bilancio europeo approvato nel 2012, guarda caso su pressione di Germania e Francia — trattato che impone un regime di austerità in tutta Europa (con una riduzione troppo rapida del deficit dei singoli paesi e un sistema di sanzioni automatiche totalmente inoperante) — ha portato a una recessione generalizzata dell’eurozona. Mentre l’economia è ripartita un po’ ovunque, in particolare negli Stati Uniti e nei paesi dell’ue esterni all’eurozona.
All’interno dell’accoppiata, la palma dell’ipocrisia spetta comunque, incontestabilmente, ai leader francesi, i quali passano il tempo a gettare la colpa sulla Germania, quando si tratta chiaramente di una responsabilità condivisa. Il nuovo Patto di bilancio europeo, negoziato dalla vecchia maggioranza, e ratificato dalla nuova, non avrebbe potuto essere approvato senza la Francia, la quale ha più che mai condiviso con la Germania la scelta dell’egoismo nei confronti del Sud Europa: visto che paghiamo un tasso d’interesse tanto basso, perché condividerlo con gli altri? Il fatto è che una moneta unica non può funzionare con 18 debiti pubblici diversi e 18 tassi d’interesse diversi, sui quali i mercati finanziari possono liberamente speculare.
Occorrerebbe investire massicciamente nella formazione, nell’innovazione e nelle tecnologie verdi. Mentre si fa tutto il contrario: attualmente, l’Italia spende quasi il 6% del suo pil per pagare gli interessi del debito e ne investe appena l’ 1% nel sistema universitario.
A questo punto, quali crisi potrebbero aiutare a smuovere la situazione? Esistono, grosso modo, tre possibilità: una nuova crisi finanziaria, uno scossone politico prodotto alla sinistra e uno scossone politico prodotto dalla destra. Gli attuali leader europei dovrebbero avere l’intelligenza di riconoscere che la seconda possibilità è di gran lunga la migliore: i movimenti politici che crescono oggi a sinistra della sinistra, come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, sono fondamentalmente internazionalisti e filoeuropei. Anziché emarginarli, bisognerebbe invece collaborare con loro per tracciare i contorni di una rifondazione democratica della ue. Altrimenti rischiamo di dover spegnere un segnale di allarme ancora più inquietante, trasmesso dalla destra: nelle regionali del dicembre 2015, salvo un cambiamento delle modalità di voto, è assolutamente possibile che il Front National conquisti parecchie regioni. Possiamo anche augurarci l’impossibile. Al punto in cui siamo, Hollande avrebbe insomma l’occasione di ammettere gli errori commessi nel 2012 e di tendere la mano al Sud Europa, formulando una buona volta delle proposte coraggiose per tutto il continente.
© Les liens qui libèrent 2012, 2015. Published by arrangement with L’Autre agence, Paris, France and Anna Spadolini Agency, Milano, Italy © 2015 Bompiani (Traduzione di Sergio Arecco)
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IL LIBRO Questo testo è tratto dalla raccolta di scritti Si può salvare l’Europa? di Thomas Piketty (Bompiani, pagg. 392, euro 20)
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