“Tagliamo le emissioni ” Big Oil fa mea culpa ma per salvare i bilanci

“Tagliamo le emissioni ” Big Oil fa mea culpa ma per salvare i bilanci

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I petrolieri europei e sauditi propongono un “mercato di anidride carbonica”: chi inquina di più paghi i diritti alle imprese virtuose. L’obiettivo è ridurre il surriscaldamento, ma più che al futuro del mondo pensano a non azzerare il valore delle proprie riserve. E gli americani non sono d’accordo
L’EFFETTO serra? Tutto vero, perdiana. Le emissioni di anidride carbonica? Bisogna fermarle, a cominciare da quelle che vengono da carbone, petrolio e gas. Come? Facciamole pagare. Nel 2009, al vertice- flop di Copenaghen sul clima, queste cose le dicevano gli ambientalisti. Oggi — alla vigilia di una nuova conferenza mondiale sul riscaldamento globale, fra sei settimane, a Parigi — le dicono i massimi inquinatori: i petrolieri. È (quasi) un mea culpa. E, tanto per restare in tema, come nella parabola del figliol prodigo, è festa grande intorno a chi arriva per ultimo. A patto di sapere che, a differenza delle parabole, nella realtà le conversioni sono assai rare, quasi mai spontanee, per lo più interessate e, se i petrolieri saltano il fosso è perché, sul lato in cui sono rimasti trincerati fino a ieri, il terreno sta franando e rischia di inghiottirli.
Bp, Shell, Total, Eni, più i sauditi di Aramco, i messicani di Pemex, gli spagnoli di Repsol, gli indiani di Reliance. Una fetta importante di Big Oil e i suoi alleati naturali hanno fatto una scelta di campo. A cominciare da quest’estate e ancora l’ultima volta a metà ottobre hanno lanciato un appello, per sottolineare che dalla conferenza di Parigi il mondo non può uscire a mani vuote: «È una opportunità critica per irrobustire gli sforzi che affrontino globalmente le cause e le conseguenze del cambiamento climatico ». Più che una illuminazione, è un bagno di realismo. I petrolieri si sono resi conto che stoppare il riscaldamento globale è una necessità assoluta, prima ancora che per salvare il mondo, per salvare i loro bilanci. Se il riscaldamento del pianeta, come ormai invocano tutti, non deve superare i due gradi, petrolio e soci rischiano la garrota. Quasi due terzi delle emissioni di anidride carbonica, infatti, vengono dai combustibili fossili. Se continuiamo a bruciarli, il traguardo dei 2 gradi sarà presto travolto. I conti variano, ma il più recente — uscito su
Nature — dice che, per restare nel limite dei 2 gradi, occorre lasciare sotto terra, senza toccarle, l’82 per cento delle riserve esistenti di carbone, il 49 per cento di quelle di gas, il 33 per cento di quelle di petrolio. Più o meno, i due terzi delle riserve globali di combustibili fossili non valgono nulla, perché sono inutilizzabili, pena la catastrofe climatica.
Per Big Oil, però, la catastrofe è qui. I bilanci dei giganti del petrolio si fondano sul valore del loro patrimonio, cioè proprio di quelle riserve. Sono cifre che mozzano il fiato: secondo gli analisti, 28 mila miliardi di dollari contabilizzati negli attivi di bilancio, per quasi due terzi relativi ai giacimenti di greggio. Fatele svanire o soltanto amputatele e molte delle più grandi società al mondo affonderebbero, travolgendo le Borse. Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, ha già lanciato l’allarme, chiedendo al mondo della finanza di prepararsi all’Armageddon. Ed ecco comparire sulla scena la svolta realista di Big Oil, meno clamorosa di quanto appaia a prima vista, ma ugualmente indicativa del nuovo contesto in cui si muove il dibattito sul clima.
Non risulta, infatti, che di fronte alle minacce climatiche, i grandi del petrolio abbiano cambiato strategie aziendali. Le trivellazioni continuano, dall’Artico in giù, nessuno di loro investe davvero nelle rinnovabili, nessuno si prepara a chiudere i rubinetti dei pozzi. D’altra parte, le proiezioni, sia pubbliche che private, dei loro uffici studi dicono che, vista la domanda crescente di energia del mondo, i combustibili fossili restano una componente ineliminabile. Le rinnovabili che, idroelettrico compreso, arrivano ad un quarto dell’offerta di energia, non bastano e non basteranno, secondo Big Oil, da qui al 2050. Per fermare il riscaldamento globale, però, si può porre un tetto alle emissioni, con un mercato globale dei diritti ad inquinare, come già esiste in Europa. Si stabilisca quante gigatonnellate di CO2 si possono emettere quest’anno nel mondo: le aziende più virtuose venderanno i loro diritti ad inquinare e quelle meno efficienti li compreranno. In altre parole, siamo pronti a non inquinare più di tanto e a pagare per farlo, pur di salvare il nostro patrimonio. È una scommessa che ha una vittima designata e senza speranza: il carbone, il più inquinante dei combustibili fossili, a cui è tuttora affidata quasi metà della produzione elettrica mondiale. I petrolieri contano sul fatto che, abbandonando il carbone (che, peraltro, non estraggono loro) e puntando sul gas (di cui, invece, posseggono i giacimenti) si possano rispettare tetti credibili delle emissioni, grazie al fatto che il metano produce metà delle emissioni del carbone.
È vero? Un mercato globale delle emissioni potrebbe assicurare il rispetto del limite dei 2 gradi? Al momento, la domanda è oziosa, perché un mercato globale delle emissioni non è più vicino di ieri. A scorrere la lista dei petrolieri realisti, si vede, infatti, che ci sono i sauditi, ma una parte corposa di Big Oil, quella a stelle e strisce, non c’è. Nè Exxon, nè Chevron, hanno firmato appelli e documenti e si sono tenute ben lontane dalla svolta dell’ala europea dei petrolieri. Il motivo è semplice: mentre i petrolieri europei avvertono la stretta di un clima politico sempre meno generoso verso i combustibili fossili, dall’altra parte dell’Atlantico questa stretta c’è solo nelle parole di Obama, soffocate dalla cintura di sicurezza del Congresso repubblicano. California e New England applicano già un mercato regionale delle emissioni, ma l’idea che questi strumenti si estendano a tutti gli Stati Uniti oggi fa parte del catalogo della fantapolitica. «Ci penserà il mercato», dice il presidente della Exxon, Rex Tillerson, convinto, che i governi si guarderanno bene anche dal far rispettare il limite dei 2 gradi. Senza gli Usa, non ha senso parlare di un mercato globale delle emissioni. Tuttavia, la stessa svolta realista di buona parte dei petrolieri conferma che il mondo si muove. A Copenaghen, nel 2009, furono Usa e Cina a tirare il freno. Oggi, che la Cina ha già autonomamente imboccato la strada del mercato delle emissioni, sono rimasti solo gli Usa sul sedile del frenatore. Eppure, se anche Tillerson, alla testa di un’azienda che, da decenni, finanzia le campagne per contestare il cambiamento climatico, ammette oggi che il riscaldamento globale «pone rischi seri», forse Obama ha più margini di manovra. Gli ultimi appelli dei petrolieri europei hanno, comunque, il merito di fissare i paletti entro cui si muoverà la conferenza di Parigi sul tema centrale, i combustili fossili. C’è chi, come gli ambienta-listi, vorrebbe metterli, gradualmente, fuori gioco. C’è chi — come Bp, Eni, Shell, Total — pensa che possano essere imbrigliati lanciando un mercato mondiale delle emissioni. E chi — come Exxon e Chevron — punta a lanciare la palla in tribuna. La partita è iniziata.


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