ACCADE CHE talvolta le facce diventino simboli, ma non della forte personalità del loro proprietario, bensì delle forze anonime che stanno dietro di loro. Negli ultimi tempi, il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) ha acquisito un nuovo simbolo, il glaciale volto di Cecilia Malmström, commissaria al Commercio dell’Ue. A un giornalista che le chiedeva come riuscisse a continuare a promuovere il Ttip a fronte dell’enorme opposizione dell’opinione pubblica, senza alcun pudore ha risposto: «Il mandato non mi è stato conferito dal popolo europeo». Paradossalmente, il suo cognome è una variante di “maelstrom”, che in inglese significa vortice… Lo scenario generale dell’impatto sociale del Ttip è chiaro a sufficienza ed equivale a niente di meno di un assalto selvaggio alla democrazia. Lo si evince più chiaramente che mai nel caso delle cosiddette “Risoluzioni delle controversie tra investitori e Stato” (Isds) che autorizzano le aziende a querelare i governi nel caso in cui le loro politiche determinassero una perdita dei loro guadagni. Ciò significa che società multinazionali non elette possono imporre le loro politiche a governi democraticamente eletti. Questi tipi di risoluzione sono già in atto in alcuni accordi commerciali bilaterali e possiamo ben vedere come funzionano. La società energetica svedese Vattenfall ha citato per svariati miliardi di dollari il governo tedesco dopo che ha deciso di eliminare gradualmente le centrali nucleari dopo il disastro di Fukushima: una politica di salute pubblica approvata da un governo eletto con un processo democratico è messa a rischio da un colosso energetico a causa di una possibile perdita di introiti.
Ma lasciamo perdere per un momento il quadro generale e cerchiamo di concentrare la nostra attenzione su un interrogativo più specifico: che cosa comporterà il Ttip per la produzione culturale europea?
In Una discesa nel Maelström , racconto del 1841 di Edgan Allan Poe, un sopravvissuto a un naufragio narra in che modo avesse evitato di essere risucchiato da un immenso vortice. Si era reso conto che quanto più grandi erano i corpi tanto prima erano risucchiati e che gli oggetti sferici erano attratti dal vortice con la massima rapidità. Di conseguenza, abbandonata la nave, si era aggrappato a un barile cilindrico e aveva atteso di essere soccorso.
I sostenitori della cosiddetta “eccezione culturale” hanno forse in mente qualcosa di simile? Stanno forse pensando di lasciare che le grandi aziende si dibattano nel vortice del mercato globale, cercando però — se non altro — di salvare alcuni prodotti culturali secondari e marginali? E come? È semplice: esonerando i prodotti culturali dalle regole del libero mercato, autorizzando gli stati a concedere sussidi alla loro produzione artistica (con aiuti statali, tasse ridotte, e così via), anche se ciò equivale di fatto a una “concorrenza sleale” nei confronti degli altri paesi. La Francia, una per tutte, insiste che questo è l’unico modo per il suo cinema nazionale di sopravvivere all’assalto furioso dei film di Hollywood campioni di incasso.
Un tale sistema può funzionare? Se è vero che misure di questo tipo possono avere un limitato ruolo positivo, tuttavia io intravedo due problemi. Il primo è che, nell’odierno capitalismo globale, la cultura non è più soltanto un’eccezione, una sorta di fragile sovrastruttura che si erge al di sopra dell’infrastruttura economica “reale”: essa è sempre più spesso una componente fondamentale della nostra economia “reale” mainstream. La caratteristica peculiare del capitalismo “ postmoderno” è la mercificazione delle nostre stesse esperienze: acquistiamo sempre meno oggetti materiali e sempre più esperienze di vita, di sesso, di cibo, di comunicazione, di consumi culturali, di partecipazione a uno stile di vita, ossia, per usare la sintetica definizione di Mark Slouka, «diventiamo consumatori delle nostre stesse vite». Non acquistiamo più oggetti: in definitiva compriamo (il tempo della) la nostra stessa vita. Il concetto di Michel Foucault di trasformazione del nostro Io in un’opera d’arte riceve una conferma inattesa: compro il mio benessere fisico facendo visita a centri benessere; compro la gratificante esperienza di diventare un ecologista consapevole acquistando soltanto frutta biologica e così via.
Il secondo problema è questo: anche se l’Europa avesse successo nell’imporre al Ttip “eccezioni culturali”, che tipo d’Europa sopravvivrà al dominio del Ttip? Non diventerà poco alla volta ciò che l’Antica Grecia diventò per la Roma imperiale, un luogo prediletto da turisti americani e cinesi, la meta del nostalgico turismo culturale, senza più alcuna importanza effettiva?
Si rendono indispensabili misure più radicali. Invece di eccezioni culturali, ci occorrono eccezioni economiche. Ma potremo coprirne i costi? Le nostri crescenti spese militari e il nostro sostegno economico a istituzioni scientifiche straordinarie come il Cern dimostrano che possiamo permetterci investimenti rilevanti senza fiaccare in alcun modo la nostra economia.
(Traduzione di Anna Bissanti)