Si è rotta la globalizzazione

Si è rotta la globalizzazione

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NEW YORK. CON le antenne sensibili di chi fa campagna elettorale, Hillary Clinton ha capito che la globalizzazione perde colpi. Suo marito Bill da presidente firmò il “padre” di tutti gli accordi libero scambio, il Nafta che creò un mercato unico tra Usa, Canada e Messico. Oggi Hillary boccia l’analogo trattato che Barack Obama ha concordato coi paesi dell’Asia-Pacifico: «Non va ratificato», dice la candidata aprendo la prima seria frattura con l’attuale presidente. Lo stesso dice Donald Trump, in testa ai sondaggi tra i repubblicani. In campagna elettorale, è vero, il populismo piace e il protezionismo porta voti. Ma stavolta c’è dietro un cambiamento profondo che investe l’intera economia mondiale. La globalizzazione si è inceppata.
Lo si capisce mettendo insieme questi tre fenomeni. Primo, il Fondo monetario al vertice di Lima annuncia che il mondo è in una recessione analoga al 2009, se misuriamo tutti i Pil in dollari anziché in monete nazionali (cosa che ha un senso, soprattutto per i paesi emergenti che vivono di esportazioni in dollari). Secondo: lo stesso Fmi rileva che il commercio mondiale non cresce più; ed era proprio l’espansione degli scambi il tratto distintivo della globalizzazione. In passato il commercio estero cresceva più dei Pil nazionali, ora è il contrario. Il terzo segnale viene dalla Rete, uno spazio decisivo visto che ci scambiamo sempre meno merci fisiche e sempre più servizi online, comunicazione e informazioni; l’ultima sentenza della Corte di Giustizia europea che blocca il trasferimento di dati dall’Europa all’America, conferma una tendenza già in atto: il web è sempre meno universale, Internet si sta lentamente trasformando in tanti Intra-Net suddivisi tra aree geografiche. Cominciarono regimi autoritari come Cina, Russia e Iran, ma anche tra Europa e Usa adesso aumentano gli ostacoli. L’involuzione è stata accelerata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio americano, certo, ma di fatto sta cambiando la natura aperta della Rete.
Dunque, la globalizzazione non è irreversibile. Di questo si è convinto anche il più grande pensatore politico americano del nostro tempo, Francis Fukuyama. Proprio lui che aveva teorizzato “la fine della Storia” dopo la caduta del Muro di Berlino: cioè il trionfo di un modello unico, la liberaldemocrazia e l’economia di mercato, un mix brevettato in Occidente. Un quarto di secolo dopo Fukuyama fa un’autocritica clamorosa, ammettendo che «né la Cina né la Russia vogliono diventare come noi». L’omologazione sembrava un trend inarrestabile, invece dei poderosi venti contrari hanno invertito la tendenza, un leader come Xi Jinping teorizza orgogliosamente non solo l’autonomia ma la superiorità del suo modello autoritario.
La globalizzazione inverte il senso di marcia perfino sul terreno dove sembrava non avere avversari: l’economia. Quando Bill Clinton firmava il Nafta, il commercio tra le nazioni cresceva più veloce dei rispettivi Pil. Allora l’abbattimento delle barriere, l’apertura delle frontiere, l’intensificarsi degli scambi e degli investimenti internazionali, erano un motore di crescita. L’inizio del nuovo millennio, segnato dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) portò perfino ad accentuare il fenomeno: dal 2003 al 2006 in poi il commercio estero crebbe a una velocità addirittura doppia rispetto ai Pil. La globalizzazione trainava tutto. Adesso, rivela il Fondo monetario, siamo nella situazione inversa: le maggiori economie mondiali hanno una crescita interna superiore agli scambi con gli altri. Il commercio mondiale langue. Porti e navi da container soffrono di sovraccapacità. Le due maggiori economie mondiali, America e Cina, sono di colpo più “introverse”. L’America sta quasi smettendo di comprare petrolio dal resto del mondo perché ne ha abbastanza in casa sua. La Cina decurta brutalmente i suoi acquisti di materie prime facendone precipitare le quotazioni e innescando recessioni nelle economie emergenti dal Brasile alla Russia. Si chiude un quarto di secolo di crescita mondiale che aveva visto i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) e altre tigri dell’emisfero Sud nel ruolo delle locomotive. Anche i paesi più avanzati ne soffrono le ripercussioni. Negli Usa rallenta la creazione di posti di lavoro (il mese scorso 142.000 contro i 250.000 di media nel 2014). La Germania, potenza esportatrice per eccellenza, può sopravvivere al grande gelo della globalizzazione? La risposta dagli ultimi dati è negativa: l’export tedesco ha iniziato a calare già quest’estate, molto prima dello scandalo Volkswagen. Se la globalizzazione è in ritirata, le conseguenze si risentono in tutte le economie “estroverse”, cioè che basavano la propria crescita soprattutto sui mercati stranieri.
Qualcosa di strutturale sta cambiando, e la Cina è un osservatorio- chiave per capirlo. Parlare solo di rallentamento della crescita cinese, è una spiegazione riduttiva. Certo la velocità di crescita del Pil nella Repubblica Popolare era stata del 10% annuo nel periodo del boom, mentre quest’anno secondo il Fmi è solo del 6,5%. Ma un altro dato fa riflettere, il consumo di energia elettrica in Cina è quasi fermo, la sua crescita è dell’1 o 2%. Cosa c’è dietro? Non solo la Repubblica Popolare subisce una frenata, ma sta cambiando anche il suo modello di sviluppo. Sta diventando una società del ceto medio, con i consumi tipici di una transizione post-industriale. A Pechino e Shanghai l’automobile ormai ce l’hanno tutti, aumentano invece i consumi di servizi: dall’istruzione alla sanità, dalla finanza al turismo. I servizi consumano meno materie prime, meno importazioni.
A queste trasformazioni strutturali si accompagna un mutamento nel clima ideologico. Ai tempi in cui Bill Clinton firmava il Nafta, il pensiero economico era dominato dal “paradigma” neoliberista. Dal mercato unico nordamericano, promise Clinton riecheggiando i suoi economisti Robert Rubin e Larry Summers, sarebbero nati milioni di posti di lavoro. Oggi a quelle favole non crede più neanche il Financial Times , che di fronte al trattato Tpp America-Asia-Pacifico prevede “al massimo” un beneficio di +0,5% nel Pil spalmato su molti anni.
Obama, che ha lavorato per anni alla costruzione dei due trattati gemelli (il Tpp con il Pacifico e il Ttip con l’Europa) è a sua volta figlio di un’epoca nuova. È stato osservato infatti che questi accordi di libero scambio sono parziali. Uniscono e dividono. Sono disegnati su misura per essere “contro” qualcuno. Nel caso del Tpp il grande escluso è ovviamente la Cina. Negli anni Novanta e all’inizio di questo millennio, con la creazione del Wto, si perseguiva una globalizzazione universale, aperta a tutti. Adesso sono di moda gli accordi “regionali”, che sono spesso conventio ad excludendum , club a cui si accede dietro invito. Obama ne ha spiegato la logica: cominciando da un accordo con paesi simili, come Giappone e Australia, ha inserito nelle clausole del trattato i diritti sindacali e la protezione dell’ambiente. Spera che questo un giorno possa forzare la mano ai cinesi costringendoli a concessioni. Ma Pechino ha già imboccato una strada diversa, si confeziona i suoi trattati commerciali, con chi è disposto a firmarli. Dal “mondo piatto” che teorizzava Thomas Friedman, scivoliamo in un mondo dove infinite barriere invisibili si stanno ricostituendo.


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