Quel sorriso sul pullman in viaggio verso la morte

Quel sorriso sul pullman in viaggio verso la morte

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Una delle fotografie della strage di Ankara ha colpito in modo particolare le persone, a giudicare dai passaggi che ha avuto nella rete. Non è una “bella” fotografia, nel modo in cui si dicono belle anche fotografie dolorose e struggenti. Non è nemmeno della strage, in verità. Ci stanno andando, alla strage. In primissimo piano c’è la ragazza che l’ha scattata, un selfie di gruppo; dietro ha i suoi compagni di viaggio, sui sedili del pullman, che sorridono e salutano con le due dita levate. Solo due donne meno giovani e con la testa coperta tengono più quietamente le mani in grembo. La ragazza, una studentessa, si chiama Dijle Deli, e ha postato la fotografia accompagnata dalla didascalia: «Siamo venuti ad Ankara a portare la pace». Ha un viso molto bello, come conferma su Facebook la foto del suo profilo, che ha aggiornato a luglio per avere un oleandro fiorito sullo sfondo. Anche nelle altre foto ha un trucco colorato ed elegante, ma non dev’essere molto vanitosa: nel selfie il sole ha abbagliato il naso facendolo sembrare un nasone. Le altre foto del suo profilo erano dedicate alle giovani combattenti curde del Rojava, e al nome di Kobané.
Le cronache informano che i ragazzi del pullman venivano da Malatya, capoluogo di provincia di 400 mila abitanti nell’Anatolia orientale, erano aderenti al Chp, il Partito Popolare Repubblicano, il più antico della Turchia, oggi all’opposizione. Dei passeggeri del pullman, 11 sono morti, 4 feriti, tre sono scampati perché erano andati a comprare da bere, e speriamo che sappiano perdonarselo.
C’è un’altra fotografia presa in un pullman che va alla strage, questa volta vengono da Adana. Non è un selfie, sono quasi tutti uomini, giovani i più, e anche qui fanno allegri il segno della vittoria: nei primi sedili uno, meno giovane, si è addormentato, e un altro dal sedile accanto lo guarda dormire. Forse l’affetto che queste fotografie si procurano nella rete sta proprio nella loro ordinaria normalità: senza la strage, si potrebbe dire che «sono venute un po’ male». Ma c’è stata la strage. C’è l’ovale di Sebnem Yurtman, una ragazza –quasi una bambina- di Emep, il Partito del Lavoro, un partitino marxista-leninista. C’è la foto di una giovane donna, Kubra Meltem Mollaoglu, accanto al suo leader, Selahattin Demirtas, il prestigioso copresidente del Hdp, il Partito democratico dei popoli.
E tanti altri scatti: un risarcimento al pazzesco divieto del governo turco di mostrare le immagini della strage, perfino di andare a mettere un fiore sul suo luogo. Queste foto fanno sentire gli altri, quelli che erano alla manifestazione o che avrebbero potuto esserci, come dei superstiti. Ieri, a Istanbul, giravo in cerca di eventuali dimostrazioni, in centro, a Besiktas, e non ne ho trovate, ma a un certo punto ho avuto l’impressione che fosse tutta una manifestazione, che le persone, e la miriade di ragazzi che popola la città bellissima, avessero l’aria di muoversi come per andarci, o tornarne.
Ci fu un tempo in cui le persone si facevano la fotografia per la tomba: in bianco e nero, naturalmente, e con una posa seria, già quasi postuma. C’erano fotografi specializzati. Poi anche sulle lapidi dei cimiteri arrivarono i colori e le pose scanzonate, che rimpiangevano la vita, invece di disporsi all’aldilà. Ora le immagini sono destinate a durare il tempo della trasmissione, a illustrare un messaggio o viceversa, e finire la loro vita di insetto: salvo che intervenga la disgrazia, o il crimine. Le televisioni hanno ritrasmesso all’infinito il video della prima fila della manifestazione, coi giovani che cantano e danzano, e l’esplosione alle loro spalle. Fra le immagini fermate di quella sequenza, c’è un momento in cui i giovani ancora cantano e ballano, non si sono ancora piegati per la paura e l’urto, e già alle loro spalle c’è il bagliore: come un fulmine non visto che precede lo scoppio. L’infamia si gioca in quell’intervallo minimo, fra il ballo e il canto di pace e il programma di morte. Infatti c’è qualcuno che le guarderà, le avrà guardate, alla rovescia, tutte queste immagini, pieno di odio per le facce dei ragazzi che salutano con le dita a V, per l’uomo coi baffi che tiene in braccio la bambina, per il macchinista col papillon e la sposa in bianco col bouquet di fiori; e pieno di tripudio per i corpi squartati e i visi sbigottiti. Ci saranno stati anche i selfie e le fotografie e i video degli attentatori suicidi, martiri della propria miserabilità e dell’avidità dei loro mandanti. Gireranno anche quelli sui social media, si prenderanno la loro dose di approvazioni e devozioni.
Il mondo è così, ha una faccia doppia. E’ una gran fortuna stare dalla parte del selfie di Dijle Deli, e bisogna fare in modo di meritarsela.


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