Portugal à Frente, ma anche un po’ a sinistra (radicale)

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Come pre­vi­sto dai son­daggi dome­nica scorsa l’attuale coa­li­zione di governo di cen­tro destra tra Par­tido Social Demo­crata, Psd, e Cen­tro Demo­crata e Social Par­tido Popu­lar, Cds-Pp, Por­tu­gal à Frente, PàF, ha vinto le ele­zioni per il rin­novo dell’Assem­bleia da Repu­blica por­to­ghese.

Già, il con­cetto di vit­to­ria è sem­pre rela­tivo, come quello di crisi o svi­luppo eco­no­mico. Certo, il PàF sarà la prima forza in par­la­mento e fino a qui non ci sono dubbi, qual­che per­ples­sità però sull’interpretazione dei risul­tati c’è. Dipende tutto dalla pro­spet­tiva attra­verso cui si guarda un deter­mi­nato feno­meno. Per capire il per­ché di que­sto frain­ten­di­mento occorre fare un passo indie­tro e tor­nare all’aprile del 2011, quando la Troika veniva chia­mata a “sal­vare” il paese. All’epoca la Gre­cia, avanti di un anno nel per­corso di “sta­bi­liz­za­zione finan­zia­ria”, stava già spro­fon­dando in una pesan­tis­sima crisi eco­no­mica e poli­tica. Quello dive­niva, ine­vi­ta­bil­mente, il para­digma inter­pre­ta­tivo di rife­ri­mento per chi voleva pre­ve­dere quali potes­sero essere le con­se­guenze dei piani di aggiu­sta­mento di Bce, Ue ed Fmi.

Due sono stati gli inse­gna­menti che se ne sono tratti: il primo che le poli­ti­che auste­ri­ta­rie inge­ne­rano una spi­rale reces­siva e che quindi anche il Por­to­gallo ine­vi­ta­bil­mente avrebbe fatto la fine del suo omo­logo elle­nico. Il secondo è che, a causa delle peg­gio­rate con­di­zioni di vita, i par­titi di oppo­si­zione, in par­ti­co­lare i socia­li­sti, avreb­bero avuto gioco facile, appro­fit­tando del dis­senso, a ritor­nare al governo.

L’economia invece non è crol­lata e i socia­li­sti non sono mai riu­sciti a pro­porsi come una vera alter­na­tiva al cen­tro destra. Così, un’interpretazione erro­nea di un caso ecce­zio­nale, come è stato quello greco, è il vero motivo per cui oggi una par­ziale scon­fitta viene tra­sfor­mata in incre­di­bile vit­to­ria. A onor del vero la not­tata elet­to­rale era pure comin­ciata bene per il PàF, attri­buita dagli exit poll di un 43% dei voti e, quindi di una mag­gio­ranza asso­luta. Poi però, con il pas­sare delle ore, hanno comin­ciato ad arri­vare i dati dalle grandi città e, alla fine, il 43% è diven­tato 36,8% e la mag­gio­ranza si è fatta rela­tiva e molto risi­cata. In realtà i numeri ci dicono che il cen­tro destra ha perso un quarto dei con­sensi otte­nuti nel 2011, circa 700 mila voti, ed ha otte­nuto 104 depu­tati su 230 (dal com­puto sono esclusi i 4 seggi non ancora attri­buiti dalla cir­co­scri­zione estero).

Nes­sun dub­bio invece sul fatto che il par­tito socia­li­sta di Anto­nio Costa sia da con­si­de­rare il vero per­dente. In testa nei son­daggi fino alla metà di set­tem­bre, e dopo una cam­pa­gna elet­to­rale molto delu­dente, si ferma al 32,3% (nell’autunno dello scorso anno era sti­mato nei son­daggi di un 46%). Dopo­tutto non era facile per Costa vin­cere, i socia­li­sti sono stati, volenti o nolenti, il par­tito che, agli occhi dell’opinione pub­blica, non è riu­scito ad evi­tare la dichia­ra­zione di insol­venza. Nulla è ancora deciso. Molto dipen­derà dalla discus­sione che si terrà oggi all’interno della com­mis­sione poli­tica del par­tito riu­nito per discu­tere i risul­tati elet­to­rali. Pro­ba­bil­mente verrà anche messo in agenda un con­gresso straor­di­na­rio nel quale potrebbe essere eletto un nuovo segre­ta­rio gene­rale al posto di Costa che, detto per inciso, si è assunto ogni respon­sa­bi­lità per la scon­fitta. Tut­ta­via, al di là delle respon­sa­bi­lità per­so­nali, il dato dev’essere inqua­drato nel con­te­sto euro­peo dove è tutta la fami­glia del Pse, e le sue rami­fi­ca­zioni nazio­nali, ad affron­tare la peg­giore crisi della sua storia.

Ad appro­fit­tare della grande crisi di legit­ti­ma­zione dei socia­li­sti sono le sini­stre cosid­dette radi­cali, il Par­tido Comu­ni­sta Por­tu­guês, Pcp, il cui gruppo par­la­men­tare sale da 16 a 17 depu­tati e il Bloco de Esquerda (Be) che rad­dop­pia il suo con­senso rispetto alle ele­zioni del 2011 e rag­giunge il livello sto­rico del 10,22%.

A mostrare invece una ten­denza costante al rialzo è l’astensione, salita abbon­dan­te­mente al di sopra del 40%. Nono­stante sia dif­fi­cile cal­co­larne esat­ta­mente l’entità, resta il fatto che por­zioni sem­pre più ampie di cit­ta­dini smet­tono di cre­dere nella capa­cità di rispo­sta del sistema politico.

Para­dos­sal­mente a non votare sono gli strati più fra­gili della società, quelli cioè più sen­si­bili al discorso sem­pli­fi­cante dell’antipolitica, ma anche quelli che da un cam­bia­mento poli­tico avreb­bero tratto mag­giori bene­fici. Più che di crisi della demo­cra­zia, in que­sto senso, occor­re­rebbe par­lare di crisi di un modello di svi­luppo sociale nel quale un quinto della popo­la­zione vive in con­di­zioni di alie­na­zione tal­mente estreme da non avere nean­che le ener­gie di espri­mere il pro­prio dissenso.

In un par­la­mento molto fram­men­tato resta da capire quali saranno le forze che for­me­ranno il pros­simo governo. Nes­suna ipo­tesi è espli­ci­ta­mente esclusa dai pro­ta­go­ni­sti e anzi, tutti i lea­ders in gioco fanno crip­ti­che aper­ture: il Pcp e il Be per un ese­cu­tivo di sini­stra insieme ai socia­li­sti che potrebbe con­tare su 121 depu­tati su 230. Il PàF per un accordo con il Ps e il Ps che non sem­bre­rebbe chiu­dere le porte ne alla prima né alla seconda ipo­tesi. Resta una terza strada: quella di un governo di mino­ranza di cen­tro destra che possa con­tare, almeno per il primo anno, sulla bene­vo­lenza di un par­la­mento che, causa ele­zioni pre­si­den­ziali, non potrà essere sciolto prima della pros­sima estate.



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