La sentenza di un sedicente tribunale islamico di Aleppo, epicentro di un Paese dilaniato dalla guerra civile, recapitata all’ufficio di corrispondenza dell’agenzia Ansa di Beirut, riapre, nove mesi dopo il loro rilascio, il caso di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovanissime cooperanti italiane rimaste per 150 giorni prigioniere delle milizie islamiche in Siria. Per la loro libertà – secondo quanto documenterebbe la copia digitale della sentenza datata 2 ottobre e ricevuta via mail dall’agenzia di stampa – l’Italia avrebbe pagato un riscatto di 12 milioni e mezzo di dollari (circa 11 milioni di euro), una parte dei quali, 5 milioni, spariti nelle tasche di tale Hussam Atrash, indicato dai giudici islamici della milizia “Nureddin Zenki” come Signore della Guerra in quel di Abzimo ( luogo in cui le ragazze vennero sequestrate) e per questo condannato per “truffa”.
La circostanza convince ad horas la presidenza del Copasir (il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi) ad annunciare una richiesta di chiarimenti formali alla nostra Intelligence. Ma, soprattutto, scatena per un pomeriggio le opposizioni che, in un rosario di dichiarazioni a catena (Salvini, Gasparri, Santanché, Movimento cinque stelle) accusano il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni di aver mentito al Parlamento quando, proprio nel gennaio scorso, riferendo sulle circostanze della liberazione delle due ragazze, non solo escluse con decisione che fosse stato pagato un riscatto, ma lamentò la leggerezza di quanti, prestandosi al “gioco del Terrorismo”, avevano dato corpo all’ipotesi contraria con “illazioni senza fondamento”. Un canovaccio riproposto ieri con una dichiarazione lapidaria dell’Unità di crisi della Farnesina («Non riteniamo di dover commentare supposte fonti giudiziarie di Aleppo o del sedicente tribunale islamico del movimento Nureddin Zenkin. In ogni caso non risulta nulla di quanto asserito»). Che ha del resto l’agio di misurarsi con un documento (la sentenza del sedicente tribunale islamico) il cui unico riferimento fattuale – il nome del presunto mediatore – non trova alcun riscontro nelle indagini condotte dal Ros dei carabinieri su quella vicenda. «Hussam Atrash – riferisce una qualificata fonte investigativa – è un nome sconosciuto agli atti dell’indagine sul sequestro.
Così come non risulta che nel sequestro abbia svolto un qualche ruolo la milizia citata dalla sentenza».
La musica non cambia se cambia l’interlocutore. Come per il Ros, anche fonti della nostra Intelligence sostengono di non aver mai incrociato un signore chiamato Hussam Atrash nella lunga e complessa trattativa che riportò a casa le ragazze. Così come escludono che la milizia “Nureddin Zenkin” abbia avuto una qualche parte in commedia («Il contesto delle milizie coinvolte nel sequestro e nella sua gestione fu tutt’altro »).
Dunque?
La faccenda, per quanto è possibile capire, non è destinata, nel merito, ad andare da nessuna parte. E non solo e non tanto per le smentite, scontate, di Governo e apparati (per evidenti ragioni nessun esecutivo o servizio segreto al mondo ammetterebbe mai, qualora lo avesse fatto, di aver pagato un riscatto). Ma soprattutto per l’impossibilità di misurarne l’attendibilità con un pezzo di carta che, per tempi e modalità con cui è stato recapitato all’Ansa, non solo ha le stimmate opache del messaggio in bottiglia, ma – come osservavano del resto ieri fonti di intelligence – ha sicuramente un “curioso timing”. La sedicente sentenza di condanna del “mediatore truffatore” siriano che nessuno aveva mai sentito nominare, sembra infatti avere quale unico scopo quello di fissare a posteriori il prezzo corrente di mercato (11 milioni di euro) per la libertà di due ostaggi, cittadini di un Paese – l’Italia – che, in questo momento, di ostaggi in mano a Signori della guerra ne ha quattro. In Libia. Altro quadrante fuori controllo. Dove, non più tardi di una decina di giorni fa, il nostro Paese e la nostra diplomazia sono state trascinate in una storia farlocca (l’inesistente coinvolgimento delle nostre forze speciali nell’agguato a un trafficante di esseri umani che, ragionevolmente, non ha mai avuto luogo) cominciata con un banale
tweet .
La politica italiana, insomma, sembra aver convinto i suoi interlocutori nel quadrante mediorientale (politici o milizie jhadiste che siamo) della estrema facilità con cui può essere messa a rumore da qualunque indiscrezione. Vera, verosimile o falsa che sia. Di cui è ogni volta prova, del resto, la reazione, regolarmente in ordine sparso, con cui le questioni riguardanti la sicurezza nazionale diventano materia di scontro politico. Ieri la Libia, oggi la Siria, domani chi lo sa. In un gioco di specchi dove basta una mail, un tweet, una sentenza di un sedicente tribunale islamico di un Paese dissolto, per mettere in scacco Governo, Parlamento e apparati.