Come in un tirassegno. L’automobile è parcheggiata ai margini dell’Arbat, l’isola pedonale, a due passi dal Cremlino. È frequente trovare il presidente americano raffigurato in quel modo poco rispettoso. E non è il solo a essere preso di mira. Chi mi accompagna nella passeggiata sulla Piazza Rossa era un collaboratore di Boris Eltsin, il defunto predecessore di Vladimir Putin. È scandalizzato. Nell’epoca sovietica, quando non si usavano le buone maniere, mi dice, i popoli venivano risparmiati. La propaganda sparava sui dirigenti del mondo capitalista, ma ai proletariati, come si diceva allora, venivano aggiudicate aspirazioni più nobili. Adesso la propaganda nazionalista investe le intere società occidentali: sono descritte in preda a una decadenza inarrestabile, in particolare quella europea che rinuncia alle sue radici cristiane e non sa difendersi dall’islamismo, impegnata com’è in un consumismo senza ritegno. Nella Mosca di oggi ti lasci portare da una vecchia passione. E non sei deluso. Alla prima occhiata la trovo scintillante, dinamica, curata. Non sento nostalgia per la disadorna, rigida, eppure intensa, metropoli dei miei ricordi giovanili che affondano in un passato lontano. Hai l’impressione di essere in una Mosca ritrovata, che esisteva prima di quella che hai nella memoria. Forse le letture incantate dell’Ottocento russo l’avevano fissata nella tua immaginazione. Cancelli gli sfacciati grattacieli che sfidano il panorama in cui si involano i personaggi di Bulgakov e la città diventa accogliente, decifrabile. Direi amica. I contatti quotidiani non sono ispidi come il linguaggio ufficiale.
Il desiderio di Europa è palpabile. Non solo per i numerosi negozi rigurgitanti di moda maschile e femminile proveniente dall’Occidente. Chi dispone di un passaporto, al quale tutti hanno diritto, e ha i mezzi per viaggiare, vale a dire un russo su dieci se ci si basa sui passaporti richiesti, sceglie spesso come destinazione le nostre vecchie città. Ma stando ai sondaggi, o comunque secondo le intenzioni di chi li promuove, la reputazione degli americani e degli europei sarebbe in netto ribasso. Sia perché l’accerchiano e minacciano con l’Alleanza atlantica, sia perché con le sanzioni rivelano la loro ostilità alla Russia impegnata a recuperare il prestigio di super potenza, cui aspira per naturale diritto. Sia per motivi morali: autorizzare i matrimoni gay, sentenzia l’ascoltata, riverita Chiesa ortodossa equivale a preferire la fede in Satana alla fede in Dio. È un sentimento schizofrenico: spaccato in due: attrazione e avversione per l’Occidente. Non è certo nuovo nella cultura, come nel sentire popolare.
La Russia di Putin promette un’educazione fondata sui valori cristiani, sulla cultura classica, sull’amore per la vita militare dedicata alla patria, sul rispetto della gerarchia. Di fatto, commenta l’ex collaboratore di Eltsin, Putin fa l’apologia della guerra ed esalta l’idea dell’impero. Non so quanto rancore ci sia in questo giudizio. Lo riferisco come l’ho raccolto.
I vecchi filosofi conservatori vengono riesumati. Tra questi Constantin Leontiev. Alla fine dell’Ottocento Leontiev sosteneva che dopo il Rinascimento l’Europa non aveva più dato né santi né geni. E quindi la Russia, allora zarista, doveva contare su se stessa. Ne aveva la forza e il dovere. I consiglieri di Putin hanno recuperato Leontiev ed altri filosofi a lungo dimenticati nelle biblioteche o ritrovati nei cimiteri degli esuli “bianchi”. Ed essi animano i discorsi del presidente. Il quale, come noto, non è un intellettuale, ma rispettando la tradizione russa gli capita di esaltare i pensatori adeguati al momento politico. E suggeritigli dai consiglieri. Tu hai l’impressione che Pushkin, Cechov, Tolstoj abbiano ceduto il passo a scrittori di cui si erano perdute le tracce, o si conoscevano appena le opere. A noi ignote e spesso tali anche per la stragrande maggioranza dei russi. Ritroveremo i filosofi dissepolti, i cui fantasmi popolano le sale del Cremlino.
Lo scrittore, un oppositore tollerato, è al tempo stesso lusingato e indignato. Poche ore fa era di fronte a Vladimir Putin e lo sottolinea più volte. Era un invitato di rilievo a un appuntamento ufficiale nonostante le sue critiche al regime. Non è indifferente al riguardo riservatogli dal presidente, ma nel descriverlo lo definisce un “ragazzaccio”, ricordando quel che lui stesso ha raccontato. Da giovane, vivendo per le strade di San Pietroburgo (allora Leningrado), Putin ha imparato che spesso bisogna essere pronti a sferrare il primo pugno. È un principio che non ha mai dimenticato. Sorprendere. Così ha fatto, mezzo secolo dopo, in Georgia, poi in Crimea e adesso in Siria. Equivalgono a un cazzotto dato senza preavviso anche quei missili lanciati dal Mar Caspio, ed esplosi a millecinquecento chilometri sui ribelli che assediano Damasco. Non solo sorprendere, ma stupire con un’impresa di alta tecnologia, più di mezzo secolo dopo il primo uomo nello spazio, che fu Gagarin, un russo. La Russia postsovietica compiva, dopo 25 anni, la prima operazione militare fuori dalla sua ex zona tradizionale di influenza. E il lancio dei missili, il 7 ottobre, ha coinciso con il 62esimo compleanno di Putin.
I dettagli della grande cronaca politica e militare, forse destinata a diventare storia, possono essere casuali, insignificanti, intimi, folcloristici, ma sono quelli che colpiscono l’immaginazione popolare. Se poi hanno un carattere personale (la rinascita della potenza russa simultanea al genetliaco di Putin) enfatizzano la figura del capo. Il leader carismatico sorprende il mondo, e l’Occidente in particolare, dimostrando che la grande Russia non è defunta con l’implosione dell’Unione sovietica. E piace alla sua gente che egli accosti l’evento militare di portata internazionale alle sue bravate di ragazzo per le strade di Leningrado. La tribù, dice lo scrittore critico ma tollerato, non è indifferente al capo che mostra i muscoli. I consensi, già altissimi, hanno raggiunto negli ultimi giorni quasi il novanta per cento. Nove russi su dieci approvano l’azione militare di Putin. Anche se per eccessivo zelo i sondaggi possono essere gonfiati, l’assenso popolare è comunque alto. Fa impallidire i responsabili delle società democratiche.
La ricerca per definire, nelle sue sfumature, il regime di Vladimir Putin è impegnativa. Ricorro a un altro filosofo riesumato, Nicolaj Danilevskj (1822-1875), slavofilo e panslavista, il quale parlava di “entusiasmo disciplinato”. La formula va a genio all’attuale capo del Cremlino. Il quale è conservatore, espansionista e non è avaro di iniziative spettacolari, politiche e militari, capaci di attirare l’attenzione e l’adesione del paese. Tutti i leader di sistemi autoritari hanno questa ambizione. Ci provano. Oltre a suscitare un “entusiasmo disciplinato”, Putin applica una democrazia protetta, che è un surrogato di quella vera. Non esiste censura in Russia, né giornalistica né letteraria. Ma sulla stampa agisce una forte autocensura, favorita dalle proprietà e dalla vigilanza politica. Questo non esclude la discreta libertà concessa a pubblicazioni secondarie. Le quali servono da alibi. Lo stesso vale per la televisione, totalmente addomesticata, ma con qualche canale e stazione radio marginali che fanno eccezione. Idem per le case editrici. Non ci sono interdizioni ma i saggi o i romanzi troppo scomodi per il regime finiscono da editori secondari. La vita privata usufruisce di una larga libertà. Una libertà nella sicurezza dopo il caos degli anni Novanta, quando dalle ceneri dell’Urss spuntavano gli oligarchi, che si spartivano i beni dello Stato, e nelle strade non mancavano i delinquenti. Oggi puoi usare senza restrizioni Internet e i suoi più moderni derivati. Se hai i soldi puoi viaggiare dove vuoi nel mondo. Sbatti contro la cappa autoritaria se alzi la testa al livello del potere politico.
Una superspia, un celebre regista, un filosofo riesumato. È un trio di rilievo nella Russia di Putin. Jurij Vladimirovic Andropov (1914-1984) è stato assai più di una superspia. Ha diretto per quindici anni il Kgb. E Putin, nel mezzo degli anni Settanta, è entrato come recluta in quel corpo di élite, l’agenzia di spionaggio dell’Unione Sovietica, mentre lui, Andropov, ne era il capo. In quanto tale Andropov ha contribuito a formare la classe dirigente postsovietica, poiché non pochi ex membri del Kgb (dal 1991 Fsb) ne hanno fatto o ne fanno parte. Per il novantesimo anniversario della nascita, Putin ha inaugurato una statua di Andropov a Petrozavodsk, a Nord di San Pietroburgo. Non è stato un gesto di devozione a un capo comunista. Chi lo conosce bene sostiene che Putin non ha mai creduto nel comunismo, né in un sistema economico controllato dallo Stato, o in una società senza classi.
Dimitri G. si è convertito alla pittura in tarda età. Un tempo era uno scriba del regime sovietico. Forse (lo sospetto) era anche un collega subalterno di Putin nell’intelligence. Adesso, ritiratosi in un atelier alla periferia di Mosca, mi spiega che l’aver fatto parte del Kgb è come avere appartenuto a una setta. O a un’organizzazione estesa ma elitaria in cui bisognava avere una mentalità particolare, un preciso rapporto col potere e con il prossimo, un modo di agire e di pensare ricco di sfumature. Per certi e non trascurabili aspetti, Andropov resta per Putin un punto di riferimento. Gli ha voluto comunque dedicare un omaggio che appare un atto di fedeltà.
Il regista, il celebre ed esuberante Nikita Michalkov, ha cercato di conciliare le due Russie: quella “bianca” e quella “rossa”, l’impero zarista e l’impero sovietico. Vicino a Putin, suo assiduo consigliere, Michalkov si è prodigato nel tentare di rucucire lo strappo storico. Innamorato della Russia zarista ha contribuito con slancio al recupero delle salme degli esuli “bianchi” disperse nei cimiteri occidentali, e adesso sepolte in patria. Tra quest’ultime c’è quella di Ivan Ilin (1883-1954).
Lui, Iljin, è il filosofo. Michalkov l’ha fatto scoprire a Putin. Era semisconosciuto o dimenticato ed è diventato il pensatore al quale il presidente si riferisce puntualmente. Promuovendolo “grande filosofo”. Iljin era un accanito nemico della rivoluzione d’ottobre, era l’ideologo dei “bianchi” durante la guerra civile, era interessato (ma rifiutando di implicarsi direttamente) al nazionalsocialismo tedesco e al fascismo italiano, e dopo la sconfitta dei due regimi, rivolgeva uno sguardo benevolo a Franco e a Salazar. Ma Ivan Iljin ha conquistato Putin soprattutto per quel che ha scritto della Russia post-comunista. Il filosofo in esilio (prima in Germania, poi in Svizzera) insiste sulla necessità, quando l’Urss sarà fallita, di lanciare una nuova «idea russa, religiosa per le sue origini e nazionale nel senso spirituale». La scelta del leader che dovrà portare a compimento il progetto sarà decisiva. Il presidente si sente come investito da quel filosofo riesumato e promosso a una fama postuma, per iniziativa di un geniale specialista dello spettacolo, qual è Nikita Michalkov.
Vladimir Putin invoca la nostalgia dell’Unione Sovietica, ma anche dei principi religiosi, della Russia zarista, dell’identità russa, della lingua nazionale, del progetto euroasiatico, dell’ispirazione slovofila (che l’ha spinto a incontrare Alexander Solgenitsyn). Il suo impero in gestazione si muove in tante direzioni, zigzagando tra le due correnti opposte, in cui si divide il pensiero russo: quella slavofila e quella filo- occidentale. Il sistema imperiale che si disegna è più pragmatico di quel che appare. Vuol essere efficace, moderno, capace di usufruire degli spazi internazionali, politici e militari, che si presentano. Un sistema basato sull’economia di mercato, in cui le tradizioni religiose e nazionali sono elementi essenziali per l’unità del paese. Molto resta imprevedibile.