Il modus operandi di Washington è sempre lo stesso ed è quello sbagliato: l’uso spropositato di raid aerei che, con il loro corredo di bombe “intelligenti”, sbagliano immancabilmente obiettivi. Basterebbe elencare la quantità di stragi compiute negli ultimi anni nelle montagne del Pakistan, o nel deserto yemenita, dove una volta su tre i droni statunitensi confondono una festa di matrimonio o un mercato di cammelli con un campo di addestramento jihadista.
Stavolta, tuttavia, dopo la distruzione dell’ospedale afgano di Medici senza frontiere, il governo di Kabul ha detto che vi si nascondevano terroristi e Washington ha promesso un’inchiesta esaustiva. Questo tipo di giustificazione a posteriori pone un problema morale, che è lo stesso che emerse durante l’ultimo conflitto tra Hamas e Israele, quando c’erano jihadisti che trovavano rifugio nelle scuole o appunto negli ospedali della Striscia di Gaza. Che fare, allora? Bombardare a rischio di colpire degli innocenti, di “danni collaterali”, o non bombardare lasciando in vita potenziali kamikaze? Ricordo che negli Anni ’60, a cena da amici, Jean-Paul Sartre pose una domanda analoga ad Albert Camus. Gli chiese: «Se la polizia cattura un terrorista che ha piazzato una bomba in una scuola, è giusto torturarlo per farsi dire dove ha messo il suo ordigno e salvare i bambini? Oppure, visto che la tortura è il più orrendo dei crimini, non va torturato col rischio di far saltare in aria tutta una scolaresca?». Sartre disse di non conoscere la soluzione. Camus diede invece una risposta definitiva. Disse: «Peggio per i bambini». Intendeva che qualsiasi cosa accada, non si può trasgredire un principio, perché allora diventano infrangili tutti i principi. In altre parole, non si deve mai torturare nessuno, neanche se ci sono ottimi motivi.
Credo anche che se i Taliban o le brigate dell’Is sono davvero un pericolo mortale, che rischia prima o poi di arrivare fino alle porte di casa nostra, allora dobbiamo dichiarargli guerra. E farla per davvero. Non basta sganciare qualche bomba dal cielo, perché dall’altra parte ci sono decine di migliaia di nemici determinati a combattere e pronti a morire. È necessario schierare un esercito di terra e mettere in conto che nel conflitto possano morire anche i nostri soldati. Altrimenti saremo condannati alla sconfitta. Ci sono già numerosi giovani che dalla Francia e l’Inghilterra partano a combattere al fianco dei peshmerga curdi contro gli islamisti, perché consapevoli che i raid aerei non bastano più. Mi ricorda l’atto di straordinaria solidarietà delle brigate internazionali che nel 1936 si arruolarono da tutto il mondo per aiutare la giovane Repubblica spagnola insidiata dalle forze fasciste.
L’altra priorità della comunità internazionale è costringere la Turchia a smettere di bombardare i curdi. Al momento, l’unico esercito in campo contro le legioni del Califfato è quello curdo. E noi, questo esercito dobbiamo aiutarlo, armarlo con armi moderne e non di seconda scelta come abbiamo fatto finora. Se agiremo diversamente, i jihadisti continueranno a vincere sul terreno, e a compiere le loro atrocità su cristiani, yazidi e musulmani che non la pensano come loro, i quali fuggiranno dalla Siria e dall’Iraq e andranno a ingrossare le colonne di profughi diretti verso l’Europa. Lo Stato islamico vuole indebolirci. È la sua strategia. E ogni volta, che un migrante sbarca da noi, il Califfo raggiunge il suo obiettivo.