Le ceneri. Un inedito di Pier Paolo Pasolini

by redazione | 28 Ottobre 2015 9:49

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Questa lettera dattiloscritta è stata ritrovata tra le carte del periodo casarsese da Antonella Giordano che sta curando per Garzanti la nuova edizione dell’epistolario di Pasolini. È del maggio 1945, quando arriva la notizia ufficiale della morte di Guido, fratello di Pier Paolo. Ne pubblichiamo uno stralcio grazie a Graziella Chiarcossi

Il dolore più straziante ci è nato quando abbiamo visto una tua fotografia di quando avevi quattordici anni; quel tuo viso che m’assomiglia, con gli occhi cerchiati e un’espressione patita di ragazzo robusto ma troppo entusiasta, ci ha gettato nel cuore un impeto, una rabbia di pianto, come se tutto il nostro passato comune ci avesse sommerso. Hai udito come la mamma gridava, chiamandoti? Ora essa è qui, seduta, che tace. Se tu la vedessi, come la riconosceresti! L’infinito dolore che le hai dato non l’ha segnata, è sempre la nostra giovinetta, col suo viso carissimo della mattina, quando non ha ancora fatto la toeletta, e sfaccenda e s’affatica per casa. È lì che tace, con uno di quei suoi fazzoletti chiari sul capo; tu la riconosceresti, perfettamente, non è mutata per nulla; ma forse ti riuscirebbe un po’ nuova, come a me, quella sua espressione, soprattutto della bocca, che è forse un atteggiamento di dolore, ma io m’illudo, mi sforzo a credere che sia una specie di sorriso. Non sono passati che due notti e un giorno da che abbiamo saputo della tua morte, e una sola notte da quando quella tua fotografia ci ha dato per un attimo la sensazione, la divinazione dell’immensità del nostro dolore. E quindi tu ti meraviglierai come io possa aver preso la penna in mano, e incominciato a scriverti; me ne sarei meravigliato anch’io, solo tre giorni fa, benché coi pensieri di questa specie mi sia da molti mesi approfondito. Ma a che serve la nostra meraviglia? Ecco una realtà: tu laggiù un giorno di questo inverno, morto su un prato, o chissà dove; ed ecco un’altra realtà: io che ora, in questa stanzetta di Versuta, che tu hai conosciuto quando non vi avevamo ancora trasportato i mobili, io che ora ti scrivo. Dobbiamo arrenderci. E la resa, si vede, è necessaria; viene dal nostro corpo medesimo, quello che tu non hai più, ed io ho. È necessario poiché scrivendoti non penso che tu sia morto, ma vivo, anche se immancabilmente diverso da quel ragazzo che fu mio fratello, e che ho visto perfettamente, carnalmente, fatalmente tale nella fotografia.

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