by redazione | 3 Ottobre 2015 9:56
Sono passati due anni dalla strage di Lampedusa[1], una delle più gravi catastrofi nel Mediterraneo, quella che indusse a pronunciare il fatidico «mai più», poi sistematicamente tradito.
Nel corso di questo biennio gli eccidi di migranti e profughi si sono moltiplicati con ritmo incalzante: sono almeno 2.900 le vittime della «Fortezza Europa» nel breve periodo che va dallo scorso gennaio a oggi.
Nondimeno, rispetto a due anni fa, è subentrata non solo «una certa assuefazione», come si dice.
A rendere ancor più cupo uno scenario in cui si moltiplicano confini corazzati, vagoni blindati, campi d’internamento, deportazioni, violenze poliziesche contro inermi, ristagna in Europa una certa aria di negazionismo.
All’ampio movimento che solidarizza attivamente con i rifugiati fa da contraltare un’opinione pubblica che nega o minimizza lo sterminio dei nuovi reietti oppure allontana la sua stessa idea come fosse una zanzara molesta.
A sollecitare la pietas ormai non bastano più le immagini atroci di cadaveri d’infanti uccisi dal proibizionismo.
Non c’è solo il negazionismo a comporre quella che in un articolo precedente ho definito semiotica del genocidio. Per coglierne un altro segno, basta soffermarsi sull’istantanea, divulgata dai media una decina di giorni or sono, che fissa una folla di donne e bambini assiepata dietro il reticolato del «muro della vergogna», al confine tra l’Ungheria e la Serbia. A rendere l’immagine ancor più insostenibile, in prima fila ci sono alcuni bambini che, stretti contro la barriera, le volute di filo spinato incombenti sulle loro teste, stringono tra le mani dei giocattoli.
Altrettanto intollerabile è l’idea che più tardi almeno quattro bambini, perduti dai genitori il 16 settembre a Horgos durante le cariche brutali della polizia ungherese, sarebbero stati trattenuti per essere affidati a «strutture specializzate». Ricordo che in quella occasione la polizia aveva fatto uso di cannoni ad acqua, lacrimogeni, proiettili al sale, anche contro donne e minori, e poi arrestato un buon numero di profughi.
La crudeltà perfino verso i fanciulli non è la sola traccia a indicare l’allarmante mimèsi di un passato abietto che, come ha scritto recentemente Barbara Spinelli, «si banalizza e rivive» grazie al «patto dell’oblio» che vige, di fatto, nell’Unione Europea.
Il 23 settembre alcuni attivisti ungheresi denunciano che a Zakany, vicino al confine tra Ungheria e Croazia, centinaia di migranti sono stati caricati su carri-merci chiusi, senz’acqua né cibo, per essere trasferiti verso il confine austriaco. Non è la prima volta che le autorità magiare compiono, senza alcun pudore, atti che ricordano la deportazione degli stessi ebrei ungheresi nel 1944.
Infatti, lo scorso luglio, a un treno che partiva da Pecs diretto a Budapest era stato aggiunto un vagone-merci chiuso, stipato di profughi, perlopiù siriani e afghani, donne e bambini compresi. «Questo vagone viaggia con le porte chiuse», avvertiva un cartello appeso a un finestrino. Per parafrasare Hannah Arendt, ogni infamia è consentita pur di ridurre il fardello degli indesiderabili.
Scene di tal genere e stragi di reietti sono destinate a moltiplicarsi dopo che il più recente vertice dei leader dell’Unione Europea ha approvato un pacchetto che ripropone «una strategia fallimentare», per dirla con Amnesty International: nessuna misura a garantire percorsi sicuri e legali per i rifugiati, nessuna per riformare il sistema di asilo.
Tutto quel che si è deciso va nella direzione opposta: controlli più ferrei delle frontiere; strategie di esternalizzazione per tenere migranti e profughi fuori dal territorio europeo; rigida distinzione tra migranti «economici» e profughi, a loro volta discriminati secondo la nazionalità.
E ciò in barba al principio, sancito dalla Convenzione di Ginevra, per il quale il diritto alla protezione internazionale riguarda chiunque abbia fondato motivo per temere d’essere perseguitato nel Paese d’origine.
Si aggiunga il lancio della seconda fase della missione navale EunavForMed contro gli «scafisti», che prevede l’abbordaggio e l’affondamento in mare aperto dei «barconi», in realtà sempre più spesso null’altro che gommoni auto-governati: in assenza di corridoi umanitari, una tal missione si configura come atto di guerra contro la moltitudine in fuga.
Altrettanto perversa è l’istituzione degli hotspot finalizzati a identificare, registrare e foto-segnalare i migranti, con lo scopo, in definitiva, d’incrementare i rimpatri. Chi si rifiuterà di farsi identificare finirà in centri d’internamento e, in Italia, in quelle strutture sinistre, peggiori del carcere, che sono i Cie.
Come negli anni di cui parla Arendt, il campo d’internamento, qualunque sia la sigla con cui oggi è nominato, torna a essere «la soluzione corrente del problema della residenza delle displaced persons». Fra le quali, attualmente, numerose sono le persone con bambini: dunque, anche loro finiranno nei Cie se i genitori rifiutassero d’essere identificati? O saranno affidati a «strutture specializzate»?
Paradossalmente, «gli espulsi dalla vecchia trinità Stato-popolo-territorio» (ancora Arendt) approdano, quando ci riescono, in un mondo disseminato di muri e barriere di filo spinato, ove risorgono nazionalismi aggressivi, ove a difesa del proprio territorio si arriva a schierare gli eserciti, ove si compete ferocemente per respingere il massimo possibile di migranti verso il territorio del confederato più vicino.
I nazionalismi, a loro volta, sono prodotto secondario del sovra-nazionalismo armato a difesa delle frontiere praticato pervicacemente dall’Unione Europea.
È dunque sul versante delle migrazioni e degli esodi che oggi si decide del destino dell’Europa unita, progettata nel dopoguerra giusto per sconfiggere i nazionalismi, oltre che il colonialismo e la crisi economica: ovvero i tre grandi mali che avevano prodotto il fascismo, per citare ancora Spinelli.
È un destino dall’esito incerto, data la fragilità delle istituzioni comunitarie e la mediocrità delle élite dirigenti.
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