La riscossa di Bernie il rosso l’indipendente del Vermont che scuote la sinistra Usa

by redazione | 13 Ottobre 2015 8:23

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WASHINGTON. DAL VERMONT, delizioso Stato di verdi monti, grandi laghi, milioni di mucche e miliardi di fameliche zanzare, arriva al primo dibattito tv fra democratici, Bernard Sanders, la zanzara politica che sta pungendo Hillary Clinton. A 74 anni, con l’aspetto inoffensivo del professore universitario in pensione, la giacca spezzo stazzonata, i capelli bianchi arruffati, i grandi occhiali con la montatura di tartaruga, “Bernie”, come lo chiamavano nella casa del padre venditore di vernici a Brooklyn, è il senatore che non ha speranza di andare alla Casa Bianca, ma ha mostrato quanto sia debole Hillary sul fianco sinistro. Il duello fra la Zanzara e la Signora.
Sanders passa per “socialista” soltanto per essere un indipendente che in Senato fa gruppo con i democratici e anche nell’Europa di oggi sarebbe classificabile al massimo come un socialdemocratico moderato. Ma nella corsa verso il centro dell’erede designata dalla “Clinton Machine” per la Casa Bianca e la furia ultrareazionaria che sta gonfiando la retorica dei 14 repubblicani ancora in gara, sostenere che il salario minimo andrebbe aumentato per legge alla mostruosa cifra di 15 dollari all’ora, che le tasse dovrebbero servire a redistribuire un po’ dei redditi alti verso quelli più bassi e gli Usa avrebbero bisogno di una sanità pubblica nazionale e di meno prepotenza finanziaria, garantisce la qualifica di leninista di tendenza Trotsky.
In realtà, Sanders è uno degli ultimi superstiti di quella sinistra progressista che in tanta parte della cultura politica ebraica, negli Usa come in Israele aveva accompagnato i primi passi dello stato di Israele e prodotto uomini come Yitzhak Rabin, assassinato. Nella Brooklyn dove era nato nel 1941, da una coppia di polacchi fuggiti per tempo dall’Europa inghiottita dal nazismo e dal fascismo che avrebbero sterminato la loro famiglia nei campi della Shoah, Sanders era cresciuto con il culto dell’esperimento sionista. Appena laureato nel Brooklyn College e poi a Chicago, aveva lasciato New York per trascorrere qualche anno in un kibbutz, vivendo la vita spartana, ma appassionata delle comuni agricole ebraiche.
Fu il confronto fra l’utopia egualitarista dei kibbutz e la realtà sociale americana a spingere il futuro senatore verso la politica. Fece parte di organizzazioni studentesche militanti, diresse uno dei tanti “Comitati non niolenti per la niustizia sociale”, tentò fortuna nella produzione di poco guardati documentari di denuncia e nel lavoro di ghost writer per politicanti locali. E nelle peregrinazioni politiche sbarcò in Vermont, uno Stato allora — e ancora — fortemente agricolo, dove l’antica influenza dei puritani si avverte nel severo e fortissimo senso di comunità e responsabilità.
Poi vennero i dodici apostoli. Non sotto forma di santi, ma di elettori, quanti bastarono per eleggerlo con striminzito margine sindaco di Burlington, la città più popolosa del Vermont, se “popoloso” è l’aggettivo giusto per un paesone che nel 198 non arrivava ai 40mila abitanti. Sono quei dodici elettori di maggioranza sui quali Sanders costruirà la carriera politica che lo avrebbe portato per 25 anni, dal 1990 a oggi, a sedere prima alla Camera e poi al Senato, autodefinendosi “socialista” e oggi “indipendente”.
Nel Senato i democratici dell’era post reaganiana, quando lui arrivò, erano terrorizzati all’idea che sedesse nel loro gruppo e segnasse con pericolose idee di sinistra le loro schiere. Ma Sanders, che trascorre quanto più tempo può a Burlington e si vede e si incontra nel passeggio lungo la strada pedonale di Church Street senza che nessuno gli faccia caso, è tanto a sinistra quanto lo era un Franklin Delano Roosevelt, angosciato dallo squilibrio crescente della ricchezza nazionale, dal rovesciamento del sistema fiscale che succhia dal basso per fluire verso l’alto, dai diritti civili di tutti. Con una sola concessione ai conservatori, la questione delle armi, alle quali gli agricoltori del Vermont sono affezionatissimi, nelle lunghe giornate isolate e buie degli interminabili inverni.
Il suo successo, in questo preambolo di elezioni presidenziali 2016, è soltanto il rovescio della debolezza di Hillary Clinton, che non infiamma i cuori molto tiepidi degli elettori democratici e si porta sulle spalle l’immagine dell’angelo di Wall Street e dei grandi banchieri. E nei dibattiti, come negli incontri pubblici, mostra sempre grandi difficoltà di comunicazione, di spontaneità. In una parola, difetta di quel carisma che il marito, Billy, dispensava a piene mani.
Bernie non è un oratore trascinante, ma è quello che dice, non come lo dice, a riempire piazze, aule magne e palazzetti dello sport anche con 100mila giovani, che accorrono spontaneamente, e non intruppati dalle organizzazioni elettorali, bagni di folla ai quali lui reagisce, con perfetto autocontrollo, con un semplice “Wow!” di stupore. Neppure lui si aspettava di schizzare dal 6% di cortesia nei sondaggi primaverili al quasi 30% fra i democratici sfiorato alla vigilia del primo scontro con la signora e gli altri tre “nessuno” che saliranno questa sera sul palco dell’incontro organizzato dalla Cnn .
Sa benissimo, come lo sanno i giovani che lo ascoltano e lo incitano, che non ha niente da perdere in questa corsa, che non arriverà mai alla nomination e tanto meno alla Casa Bianca nel gennaio del 2017, perché le infatuazioni invariabilmente si raffreddano negli inverni delle elezioni vere, ma non è quello il suo obbiettivo. «Voglio spingere Hillary più verso sinistra, farle capire che non può tradire le attese del 99 per cento o abbandonarli alla demagogia e alle bugie dei repubblicani », ha spiegato lanciando la propria donchisciottesca campagna, che però, nell’ultimo mese, ha raccolto 26 milioni di finanziamenti, tanti quanti la Clinton. «Non voglio vincere io, voglio che i democratici non perdano se stessi e la loro funzione, che tornino a parlare i giovani». Curioso, e triste, che sia un uomo di 74 anni a doversi ricordare che esistono anche i giovani.
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