ISTANBUL . Un lungo drappo nero scende da un balcone di Besiktas, il quartiere che si apre sullo Stretto del Bosforo, a Istanbul. E’ la sede del Cumhuriyet Halki Partisi, Partito repubblicano del popolo, la formazione socialdemocratica oggi all’opposizione. Ma a guardarsi intorno non è l’unico segno di lutto. Salendo per Barbaros Bulvari, il boulevard di Barbarossa, dalle abitazioni spuntano vessilli oscurati, i giovani comunisti consegnano ai passanti volantini con un fiocco nero, e dalle auto emerge qualche fazzoletto di colore scuro. La sera, alla tv statale, pure quando trasmettono le partite di calcio una fascia nera compare in alto a destra.
La Turchia fatica a elaborare il dolore per la strage delle 128 persone morte sabato mattina per i due kamikaze saltati in aria alla stazione di Ankara. E la metropoli, il centro più internazionale del Paese, teme più di altre città che l’onda di attentati, letta in progressione geografica, da Diyarbakir a Suruc ad Ankara, possa infine arrivare qui. La sindrome da bomba non lascia indifferente nessuno. Ieri sera un allarme nella metro della capitale ha fatto chiudere la linea ferroviaria. Ma il livello di allerta, quello personale dei cittadini, prima che quello della sicurezza, resta altissimo.
Ieri e oggi associazioni varie, medici, ingegneri, architetti, docenti universitari, dietro lo slogan “Fermiamo la vita nel paese”, si sono astenuti dal lavoro in solidarietà con le famiglie delle vittime. E i funerali, anche quelli celebrati a Istanbul, si trasformano quasi spontaneamente in cortei di protesta.
I tre giorni di lutto proclamati sabato vanno adesso a concludersi. Ma quasi tutti i partiti hanno comunque sospeso i comizi elettorali e le altre manifestazioni di piazza, in vista del ritorno alle urne, il primo novembre prossimo. Una decisione che coinvolge i conservatori islamici, i socialdemocratici, i curdi, ma che non ha trovato il consenso dei nazio- nalisti. Spiega il leader del partito curdo, Selahattin Demirtas, il gruppo più colpito tra le vittime del massacro, mentre visitava a Istanbul una famiglia con un congiunto ucciso: «Non troviamo necessario organizzare grandi raduni nei prossimi giorni. Come possiamo pensare a questo, in un’atmosfera così amara? La vita di una singola persona è più importante del nostro successo elettorale ».
Lo stesso Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, benché attaccato l’altro ieri sia nel sud est del Paese sia nei suoi “santuari” nel Nord Iraq, ha fatto sapere di voler mantenere il cessate il fuoco, nel tentativo di abbassare il livello dello scontro con l’esercito e svelenire i toni.
La Turchia a fatica cerca di tornare alla vita normale. Il primo ministro, Ahmet Davutoglu, per le elezioni generali ha confermato la data di novembre. «Avranno luogo – ha detto- qualsiasi siano le circostanze». Eppure molti si domandano che cosa possa mai succedere in questi quindici, delicatissimi giorni che precederanno il voto. E soprattutto: servirà la strage di Ankara a sciogliere uno stallo politico che vede contrapposto un potere politico ormai incrostato nelle difesa delle sue prerogative, di fronte a istanze di democrazia piena e di libertà che non sono più garantite?
La gente per strada a Istanbul appare dare per nulla credito alle spiegazioni ufficiali sulla strage, che indicano come pista il Califfato Islamico come mandante. «Vedendo come è accaduto l’incidente – ha annunciato ieri in tv Davutoglu – stiamo indagando sui jihadisti come prima priorità». Nei locali di Besiktas i residenti guardano le immagini e si fanno scettici. Molti puntano piuttosto, conoscendo bene la storia turca dei decenni passati, su un possibile coinvolgimento dei servizi segreti volto a destabilizzare il Paese, finendo per premiare così, come chiede il presidente Erdogan, chi si pone invece come il campione della stabilità.
In tanti, anzi, se la prendono con un governo che ha fatto della sicurezza una vera ossessione, mentre le misure minime di garanzia sabato mattina sono state completamente disattese durante il corteo pacifista in marcia davanti alla stazione maledetta. Ora chiedono le dimissioni del ministro dell’Interno e di quello della Giustizia, ma senza troppa convinzione che la loro voce verrà sentita. «Non è possibile parlare di fallimento in generale – si è subito opposto il premier – questo attacco non trasformerà la Turchia nella Siria».
Il dolore, però, non dà tregua a nessuno. Soprattutto quando arriva la notizia che altre vite si sono perdute, dopo la strage. Come quella di due bambine ammazzate nelle proteste avvenute nel sud-est dell’Anatolia. Una di 12 anni, nella provincia di Diyarbakir, morta per un proiettile vagante arrivatole in testa. L’altra ad Adana, a sud, per un’altra pallottola sparata nel corso di una rivolta sedata dalla polizia con lacrimogeni e idranti. E non consola nessuno sapere che i due agenti che alcuni giorni fa avevano trascinato per strada il cadavere di un simpatizzante della guerriglia curda, come hanno mostrato un video raccapricciante girato da loro stessi, siano stati sospesi dal servizio. Sono ben altre le notizie che la Turchia vorrebbe vedere in prima pagina, e non sangue, morti, funerali, come ogni giorno, ormai, da due mesi a questa parte.