“La nostra economia provoca il caos climatico e moltiplica i disastri Ma cambiare si può”

“La nostra economia provoca il caos climatico e moltiplica i disastri Ma cambiare si può”

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«Ormai è difficile contarli. I disastri prodotti da eventi meteo estremi, come quello che ha messo in ginocchio la Costa Azzurra, si moltiplicano a un ritmo impressionante. Dal punto di vista scientifico la situazione è chiara: è il nostro sistema produttivo a provocare il caos climatico che ci danneggia. Adesso la parola passa ai decisori, alla conferenza di Parigi chiamata a scrivere la road map verso la green economy».  Achim Steiner, direttore dell’Unep, il Programma ambiente delle Nazioni Unite, ha già fatto scattare il conto alla rovescia per l’appuntamento Onu: a dicembre, in Francia, si sceglierà il futuro climatico del pianeta.
Alluvione dopo alluvione, il consenso politico è cresciuto. Ma gli impegni restano modesti. I tagli già annunciati dai governi consentono di ridurre di circa un grado l’aumento di temperatura previsto nell’arco del secolo: da 4,5 si scenderebbe a 3,5. Calcolando che la soglia di sicurezza è 2 il cammino resta lungo.
«È vero, siamo agli inizi, ma il trend si è rovesciato: abbiamo cominciato a tagliare le emissioni previste, mentre fino a ieri crescevano. Questo dimostra che cambiare è possibile. E io aggiungo che è anche conveniente dal punto di vista economico. Diminuire il consumo di combustibili fossili e passare all’efficienza, alle fonti rinnovabili, al recupero della materia utilizzata nel ciclo di produzione significa combattere lo spreco, premiare l’innovazione, dare spinta ai mercati».
C’è chi obietta che questa cura è toppo cara. È così?
«I sussidi globali a petrolio, carbone metano viaggiano attorno ai 500 miliardi di dollari l’anno. E l’assieme dei costi provocati dai combustibili fossili è stimato in 5 mila miliardi di dollari, sempre all’anno. Se destinassimo questa bolletta alla promozione dell’economia sostenibile, alla cura invece che al problema, saremmo già a un ottimo punto verso la riconversione a una società carbon neutral , che prospera senza alterare l’equilibrio di carbonio in atmosfera ».
Una parte della finanza sta cominciando a prendere le distanze dai combustibili fossili, anche perché vincoli ambientali potrebbero limitarne l’uso. In quel caso scoprire nuovi giacimenti diventerebbe inutile perché non potrebbero essere usati. Pensa che questo trend possa accelerare?
«Sì, ad esempio il Fondo sovrano norvegese, il più grande del mondo, ha già deciso di disinvestire dal carbone e la Fondazione Rockefeller ha annunciato l’uscita dal business delle trivelle. Del resto l’Ipcc, il gruppo dei climatologi che da decenni studiano il riscaldamento gobale, ci ricorda che, per evitare che sia ridotta a zero la capacità produttiva di intere aree del pianeta, nella seconda metà del secolo dovranno essere ridotte a zero le emissioni di CO2. L’aumento della temperatura va fermato entro la soglia dei 2 gradi: su questo c’è ormai un consenso molto ampio».
Ma gli impegni dei governi restano assolutamente insufficienti.
«Abbiamo aperto la strada, ora si tratta di percorrerla. Occorre lavorare perché gli impegni si rafforzino in tempi brevi. Bisogna reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori. Non è un’impresa impossibile. Basta pensare che 15 anni fa in Europa l’80 per cento dei nuovi impianti di energia funzionava con i combustibili fossili, oggi il 72 per cento dei nuovi impianti europei utilizza fonti rinnovabili».
Nei paesi di nuova industrializzazione o in corso di industrializzazione la situazione è diversa?
«Solo in parte: da due anni più del 50 per cento degli investimenti globali sull’energia viene collocato sulle fonti rinnovabili, parliamo di 270 miliardi di dollari all’anno. E queste cifre tenderanno ad aumentare anche grazie al Fondo per agevolare il trasferimento delle tecnologie pulite previsto negli accordi sul cima ».


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