La giornata più lunga di Marino: “Do le dimissioni ma posso pure ritirarle”

by redazione | 9 Ottobre 2015 9:09

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ROMA . Alla fine Ignazio Marino si è dimesso, eppure lui non è affatto convinto che davvero sia tutto finito: «Presento le mie dimissioni, ma per legge possono essere ritirate entro 20 giorni… ». E dunque anche nel momento in cui firma la lettera che tutto il Pd, da Renzi in giù, gli ha chiesto bruscamente di scrivere entro poche ore, il sindaco di Roma si lascia aperta un’ultima porticina per rientrare in campo, annunciando non il ritiro dalla politica ma «la ricerca di una verifica seria », per capire nel giro di tre settimane «se è ancora possibile ricostruire le condizioni politiche” per restare al suo posto. Non è esattamente quello che si aspettavano là fuori, ma Marino vuol fare fino in fondo “l’extraterrestre”, ignorando le leggi della politica e il galateo dei partiti aggrappandosi all’ultima, disperata speranza che i cittadini si schierino con lui.
«Care romane e cari romani» scrive il sindaco alle sette di sera, quando il vicesindaco (dimissionario) Marco Causi e l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella escono dalla sua stanza per comunicargli ufficialmente che il Pd- tutto il Pd- lo invita alle dimissioni immediate.
Cosa scrive, Marino, in quella che dovrebbe essere – ma non vuole esserlo – la sua lettera d’addio al Campidoglio, e che lui stesso trasformerà su Facebook in un videomessaggio? Innanzitutto nega che dietro la sua scel- ta ci sia il pasticciaccio brutto delle note spese: «Nessuno pensi o dica che lo faccio come segnale di debolezza o addirittura di ammissione di colpa per questa squallida e manipolata polemica sulle spese di rappresentanza e i relativi scontrini». Non c’entrano nulla, sostiene il primo cittadino, quelle cene di rappresentanza, pagate con la carta di credito del Comune, con ospiti che hanno negato di aver mai pranzato con lui.
Lascio, spiega, perché è «arrivata al suo culmine» una «aggressione» che mira a «sovvertire il voto dei romani», per impedirgli di portare a termine la sua battaglia. Io ho vinto la mia sfida, dice, «il sistema corruttivo è stato scoperchiato, i tentacoli oggi sono stati tagliati, le grandi riforme avviate, il bilancio non è più in rosso…», ma tutto questo «ha suscitato una furiosa reazione», che «oggi arriva al suo culmine». È per questo, e per nessun altro motivo, che Marino firma le sue dimissioni: per «verificare» se è ancora possibile «compiere questo percorso» fino al 2018. E vuole che i romani capiscano che c’è il rischio che – andandosene lui – «tornino a governare le logiche del passato, quelle della speculazione, degli illeciti interessi privati, del consociativismo e del meccanismo corruttivo- mafioso che purtroppo ha toccato anche parti del Pd».
Altro che Game Over. Marino si prepara a giocare un’altra partita, che nel suo schema dovrebbe vedere i romani onesti schierarsi al suo fianco contro i partiti e contro tutti gli altri protagonisti di questo scontro, dalla banda di Carminati alla squadra di Renzi. Una partita che il Pd non vede affatto, sul suo calendario, e a scanso di equivoci emette subito un comunicato in cui si affida «al commissario » che dovrà gestire il Comune. Ma cosa succederà nei prossimi 20 giorni, nessuno oggi può dirlo con certezza.
Il suo giorno più lungo, il sindaco l’ha cominciato nella maniera peggiore. Prima ha ricevuto la gelida telefonata del commissario del Pd romano, Matteo Orfini: «Ignazio, puoi fare solo una cosa: dimetterti». Poi ha preparato a casa sua un piano di difesa con l’assessore che è sempre stata al suo fianco nella buona e nella cattiva sorte, Alessandra Cattoi. E alle 11, quando è entrato nel suo ufficio all’ultimo piano del Palazzo Senatorio, senza neanche avvicinarsi al balcone con vista sul Foro, ha voluto incontrare tutti i personaggi del presepe Campidoglio. I consiglieri comunali di maggioranza, i presidenti dei municipi e ovviamente gli assessori.
A tutti, uno per uno ha posto la stessa domanda: volete andare avanti con me o volete fermarvi qui, rischiando di riconsegnare Roma a chi l’ha rovinata? Con i suoi assessori, naturalmente, è stato ancora più esplicito: chi non se la sente di andare avanti me lo dica. Ed è stato allora che sono arrivate le prime dimissioni, pesantissime: il vicesindaco Marco Causi e l’assessore ai Trasporti, Stefano Esposito (che in realtà aveva già le idee chiarissime sul destino di Marino: «A un condannato a morte si lascia almeno la scelta della modalità…» aveva detto salendo le scale).
Intanto sul Campidoglio erano arrivati tutti gli oppositori, guidati dall’ex missina Roberta Angelilli (oggi Ncd) che intonava un coretto canzonatorio: «Marino pagate er vino/ Marino pagate er vino». Alle 14 l’inventario della piazza era il seguente: 6 bandiere di Fratelli d’Italia, 12 della Lista Marchini, 4 di CasaPound, 6 di Forza Italia, una di Italia Unica, due striscioni dei grillini. Più quattro fogli fotocopiati che recitavano “Marino resisti”, sbandierati da un’agguerritissima ventina di cittadini senza tessera che citava persino il «rating di Fitch da outlook negativo a stabile » per sostenere il sindaco «contro i poteri forti che vogliono mandarlo via».
Attorno a loro, il viavai di consiglieri e assessori tra il Campidoglio e il Nazareno, con il sindaco che tirava da una parte e il partito dall’altra. Alle sette di sera, l’epilogo, con Causi e Sabella che portano a Marino la decisione finale del Pd: dimissioni.
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