by redazione | 15 Ottobre 2015 10:27
Da infrastrutture al servizio dell’economia, le banche sono diventate il soggetto politico dominante. Questo processo, iniziato quasi inavvertitamente ma oggi evidentissimo nella sua potenza, è in realtà uno dei modi con i quali il capitalismo sta uccidendo la vita collettiva e con essa se stesso, essendo un parassita delle strutture sociali, fuori e separato dalle quali non può esistere. È quanto emerge dal denso e assai chiaro dialogo su questo tema intrattenuto da Aldo Masullo e Paolo Ricci (Tempo della vita e mercato del tempo. Dialoghi tra filosofia ed economia sul tempo: verso una critica dell’azienda capitalistica, FrancoAngeli, euro 13). «In termini di pura concettualità», infatti, «l’impresa è l’organizzazione di mezzi per produrre beni apprezzabili sul mercato. Tuttavia questo organismo non vive nel vuoto, ma dentro un ambiente sociale. Fuori, non potrebbe vivere». Attraverso la finanziarizzazione dell’economia, l’impresa dissolve se stessa: «Giocare in borsa, non significa azienda!» ma è piuttosto una scommessa continua su un’unica dimensione del tempo, quella immediata, quella che qui, ora, subito, può garantire profitti altissimi.
Quello del capitalismo finanziario è «un tempo immobile, il tempo del presente, solo del presente», nel quale un’ottica di breve periodo diventa funzionale a obiettivi di guadagno immediato, di rendita calcolabile in giorni e in ore, di consumo dell’inessenziale. La temporalità del capitale è una temporalità esclusivamente quantitativa che ignora le dinamiche reali e profonde dei corpi umani individuali e collettivi. Il tempo infatti è la stessa umanità, è «la vita che viene avvertita nel suo temporale viversi» e la cui «svalutazione è la nostra vita impoverita». Una vita che sembra dunque smarrire la complessità qualitativa del mondo in un puro dato numerico, la cui valutazione è affidata a soggetti oscuri e sin troppo coinvolti, i quali «rendono il reddito, così determinato, una quantità astratta. Questo fa capire anche quanto un rating o un qualunque altro giudizio su un’impresa siano davvero molto opinabili, legati a un esile filo di interessi nonché di decisioni a volte anche assunte in maniera molto arbitraria».
Il crimine più radicale della finanza che domina la politica e le relazioni è dunque la fine del tempo vissuto dei rapporti personali, annichilito nel tempo convenzionale di milioni di scambi virtuali che avvengono nello stesso istante: «Alle attese e ai timori dei viventi che dirigono si sostituisce il gioco senz’anima e senza tempo delle procedure finanziarie», il cui esito «è distruzione di tempo presente, di vita reale, mentre in cambio si offrono fantasmi di futuro».
Il più insidioso, perché inavvertito e apparentemente moderato, di tali fantasmi è il riformismo, «vero mito del nostro tempo; né il profitto, né il capitale, né la ricchezza individuale hanno ottenuto tanto consenso quanto ne ha ottenuto l’idea che il mondo e il modo di vivere vadano continuamente modificati, senza sosta, senza fine».
Una patologia del nuovo invade i corpi sociali e le singole menti. Il valore di un’idea, di un progetto, di una proposta non risiede più nei contenuti ma nel presentarsi come nuovi rispetto all’esistente. Un nuovo, naturalmente, che è del tutto ideologico e finto poiché dietro il suo affaccendarsi per rottamare sta sempre la ripetizione del privilegio, dell’ingiustizia, del più vecchio dei gesti umani: il comando del più forte.
La riduzione della complessità del tempo alla sua sola forma presente è l’espressione più chiara del disperato desiderio che il potente — persona o struttura che sia — nutre di fermare il divenire per installarsi in esso come immobilità. Tutta la frenesia degli scambi finanziari che avvolgono la Terra in una rete senza più senso è l’apparenza dietro la quale sta un essere morti già da vivi, negando la molteplicità, il divenire, la multidirezionalità della vita e del tempo. Un archetipo che infinitamente ripete il medesimo ciclo, in modo che nulla sfugga alla prevedibilità e quindi al controllo delle forze ormai in gran parte impersonali che vanno distruggendo società e persone in nome di un«uscita dalla crisi» e di un futuro che non arriveranno mai ma ai quali sacrificare la sostanza viva del presente.
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