by redazione | 9 Ottobre 2015 9:07
A Roma i marziani durano poco. E questa volta non serve la fantasia di Flaiano per capire cosa accadrà. Alla fine, come nel celebre racconto, l’extraterrestre dovrà tornare a casa,e magari a pensare alla salute. Il sindaco marziano, diversamente dal personaggio letterario accolto con curiosità e simpatia, è rimasto subito sullo stomaco a larga parte del Pd. Non a caso è stato il suo stesso partito a dimissionarlo[1], con la “mozione di sfiducia” dei tre assessori indicati dal presidente del consiglio, Renzi. La pressione è stata fortissima, e Marino ieri si è dovuto arrendere, lasciando la guida del Campidoglio. Chissà se gli è venuta in mente la famosa battuta recitata da Vittorio Gassman: «M’hanno rimasto solo…».
Si possono mettere in fila le continue gaffes e le bucce di banana — ultima la più fastidiosa: gli scontrini — che hanno offerto l’ex sindaco come una ciliegina sulla torta al vasto schieramento che aveva iniziato a cucinarlo a fuoco lento da tempo.
Basta rivedere lo “spettacolo” offerto da Roma negli ultimi anni: da una parte i poteri economici e politici (ammesso che una tale distinzione abbia ancora senso), dall’altro un personaggio un po’ narciso, maldestro. Perché è indubbio che il sindaco Marino ci abbia messo del suo fin dall’inizio, quando 28 mesi fa osò sfidare l’apparato del Pd romano, quello di mafia capitale. Perciò dovrebbero vergognarsi un po’ le persone e le forze politiche che mettono Marino nel calderone del più grande scandalo avvenuto a Roma negli ultimi anni. E dovrebbero riflettere anche tutti quelli che ieri sera festeggiavano l’annuncio delle dimissioni.
Va ricordato che alle primarie vinse contro i candidati ufficiali del partito, Paolo Gentiloni e Davide Sassoli, annunciando il programma («Ora dobbiamo liberare il Campidoglio da una politica oscura»). Ereditava infatti una città affogata nei debiti e ridotta a succursale di mafie, malaffare, corruzione.
E così iniziava la sua battaglia colpendo personaggi e lobby che i suoi predecessori neppure osavano nominare. Chiude la discarica di Malagrotta mettendo i fari addosso al business dei rifiuti; mette mano allo snodo urbanistico dei Fori Imperiali scontrandosi con la potente lobby dei commercianti; sbaracca il gotha dell’Acea, l’azienda di gestione delle risorse idriche e dell’energia, pestando i piedi a imprenditori e finanzieri; rimette in discussione tutta la gestione dell’Atac. Solo per ricordare le più importanti questioni, senza citare quelle meno appariscenti come togliere il monopolio alla potente famiglia di Tredicine, monopolisti degli ambulanti in tutto il centro storico, contrastare l’abusivismo commerciale…
Tutto prima che scoppiasse il bubbone di mafia-Capitale, e siccome nessuno è profeta in patria il sindaco ci guadagnò una dura campagna mediatica dei grandi gruppi editoriali della città.
La verità è che Marino era stato dimesso a mezzo stampa già da tempo, molto prima delle vicende degli scontrini (più che spese pazze, spese confuse), usati per fargli pagare il conto non del ristorante ma dei grandi affari in cui ha messo il naso.
Oltretutto l’ex sindaco non solo si è mosso con la delicatezza di un elefante nei palazzi romani, perché non ha avuto riguardi nemmeno per i sacri portoni vaticani. Lo avevano appena incoronato che già si pronunciava a favore della fecondazione assistita (eterologa per giunta), che già allestiva cerimonie ufficiali e in pompa magna per le coppie gay, mettendosi in prima fila al gay-Pride.
Un vero marziano nella città Santa.
Non stupisce la vita difficile della sua giunta, rimpastata più volte e sempre sull’orlo di una crisi di governo. Con il partito di riferimento spianato dalle inchieste giudiziarie, con una destra pronta a sventolare le bandiere nere sul Campidoglio, con un’opposizione a 5Stelle presente nelle periferie.
L’anomala avventura portava dentro di sé il virus di una fine prematura.
Adesso la città viene consegnata a prefetti e commissari per la prossima manna del Giubileo[2]. I tecnici prenderanno il governo della capitale, distribuiranno pani e pesci, cercheranno di riavvicinare le due sponde del Tevere per preparare il terreno alle elezioni di primavera. Magari per il candidato del partito della nazione. Un esito, tuttavia, assai improbabile.
Perché questo non è solo il caso Marino: è la crisi di un partito romano profondamente inquinato e logorato.
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