TUNISI. È per loro il premio Nobel: per i giovani che festeggiavano ballando la breakdance davanti al teatro di Tunisi, fra i ficus dell’avenue Bourghiba. Per le donne che sorridono con gli occhi lucidi e l’espressione ancora incredula, madri che ogni settimana manifestano per i figli scomparsi o adolescenti che combattono per scegliere da sole se portare il velo o no. Per i tassisti che ieri correvano nel centro di Tunisi, intorno all’avenue chiusa per la minaccia di attentati, suonando il clacson come a un matrimonio. Il messaggio è chiaro a tutti: no, il mondo non lascerà sola la Tunisia.
La risposta tanto agognata agli attacchi terroristici e all’ansia dell’Islam radicale, è arrivata dalla sede più inattesa, la giuria del Nobel per la pace. Il comitato di Oslo ha voluto premiare il ruolo delle quattro organizzazioni che hanno gestito il dialogo fra le diverse componenti della società tunisina dopo gli omicidi politici del 2013, ma il premio è un riconoscimento per tutto il Paese. Per le donne, per gli studenti, per la società civile, per tutti quei cittadini comuni che nel 2011 hanno messo da parte la paura, sono scesi in piazza e si sono liberati di Ben Ali. C’è tutta la Tunisia nelle sigle premiate a Oslo: ci sono i lavoratori del sindacato Ugtt, gli imprenditori della federazione Utica, i militanti della Lega per i diritti dell’uomo, gli avvocati dell’Ordine forense. Il senso è uno solo: la pace si costruisce con il coraggio, stringendo i denti, senza cedere alle tentazioni di una resa dei conti violenta, senza intimorirsi nemmeno di fronte agli assalti disumani dell’integralismo. La soddisfazione è unanime, a Tunisi la gente gira con le lacrime agli occhi e lo sguardo lontano, quasi fosse sotto l’effetto di una droga. È per tutti il premio Nobel.
Nel pomeriggio i militanti più entusiasti dell’Ugtt si sono riversati nelle strade di Tunisi, volevano organizzare un corteo spontaneo. Ma la leadership del sindacato ha richiamato tutti all’ordine: la festa è di tutti, si farà nei prossimi giorni al Palazzo dei Congressi. Ma si è celebrato anche altrove: a Sousse, luogo della strage dei turisti e ancora giovedì teatro di un attentato contro il deputato governativo Ridha Charfeddine, salvo per miracolo, come a Sfax, centro industriale in declino e base di partenze dei disperati verso l’Europa.
La giuria di Oslo ha voluto sottolineare che la rivoluzione della dignità (così la chiamano i tunisini) non è stata inutile. Gli sforzi per tenere su un binario di pace i cambiamenti che in Libia, nello Yemen, in Siria, si sono trasformati in convulsioni, mutando le speranze in incubo. Dopo l’assassinio dei politici di sinistra Choukri Belaïd e Mohamed Brahmi, il Paese era sull’orlo dell’abisso. Lo scontro durissimo fra i laici e i sostenitori del partito islamico Ennahda sembrava inevitabile, e sarebbe bastato molto poco per arrivare a una guerra civile. Invece la ragionevolezza e lo spirito laico, nel nome sempre venerato di Habib Bourghiba, hanno prevalso. E oggi il Paese, sia pure con sacrificio, è considerato l’unico esempio di “rivoluzione araba” che ha portato buoni frutti. «Il Quartetto ha spianato la strada a un dialogo pacifico fra cittadini, partiti politici e autorità, aiutando a trovare soluzioni basate sul consenso. Il premio è inteso come un incoraggiamento al popolo tunisino il quale, malgrado le sfide importanti, ha messo le fondamenta di una fraternità nazionale, che deve servire da esempio per gli altri Paesi», si legge nella motivazione del Nobel. Alla base della scelta c’è senz’altro anche la considerazione che gli altri candidati, a partire da Angela Merkel, da papa Francesco, per arrivare al prete Mussie Zerai, l’angelo dei profughi dell’agenzia Habeshia, ai pescatori e alle autorità di Lampedusa, hanno davanti a loro la sfida epocale dell’immigrazione, e ne saranno ancora impegnati anche nei prossimi anni.
Per il presidente Beji Caïd Essebsi, la decisione del comitato di Oslo «consacra il percorso di consenso scelto dal nostro Paese. Perché la Tunisia non ha che una strada: il dialogo e l’unità, soprattutto nella lotta contro il terrorismo», ha aggiunto il capo dello Stato. Sami Al Dhahri, portavoce del sindacato, dice che il premio è arrivato giusto in tempo per ridare fiducia. «È un omaggio ai nostri martiri. Non è motivo solo di gioia e orgoglio », ha detto Houcine Abassi, segretario dell’Ugtt, «ma anche di speranza per il mondo arabo. È un messaggio per la nostra regione, perché deponga le armi e sieda a parlare al tavolo del negoziato. E bisogna ricordare che l’intera regione è seduta sul bordo di un vulcano attivo». E dalla sede del partito islamico Ennahda arriva un richiamo indispensabile: «Adesso non lasciateci soli».