ROMA . DA SETTE anni il volontariato italiano non cresce. Lo dice il primo selfie che le Organizzazioni della società civile (secondo la definizione di Dublino 2005) si sono scattate a fine 2014, allargandolo poi nelle 70 pagine del Report nazionale sulle organizzazioni di volontariato disponibile in questi giorni. È il primo autocensimento su questo vasto mondo e l’ha realizzato il Coordinamento dei centri di servizio, istituiti con legge nel 1991 e oggi arrivati a 74 nel paese.
Il lavoro innanzitutto ci dice che le organizzazioni di volontariato registrate nelle venti regioni sono 44.182. Tante? Poche? Il censimento non dà punti di riferimento a ritroso, ma subito dopo il dato assoluto offre un’informazione inedita che conferma quello che ai convegni si dice da tempo: il volontariato italiano, fortemente cattolico e di sinistra, è in crisi, fatica a espandersi, non trova una dimensione contemporanea.
Già, tra il 2007 e il 2014, che è esattamente l’ampio spettro temporale della crisi economica mondiale e soprattutto italiana, le nuove organizzazioni di volontariato hanno rallentato la loro crescita, che durava dal 1942 e negli Anni Ottanta e Novanta era diventata tumultuosa. Nel 2008, stagione spartiacque, si registra il primo arresto: meno due per cento. Poi ancora meno due, meno sette per totalizzare un — 39 per cento in sette stagioni di fila. Una somma in negativo che colpisce. Non si tratta di una decrescita delle organizzazioni in valore assoluto, ma di un rallentamento (molto forte) delle nuove strutture organizzate. Nell’ultimo anno preso in considerazione, il 2014, la nascita di realtà no profi tè sceso addirittura del 15 per cento. In assenza del dato dirimente — quante organizzazioni esistenti hanno cessato di vivere od operare — la crescita rallentata va confrontata con gli anni dell’esplosione del Terzo settore. Nel 1993 nacquero 275 nuove associazioni non profittevoli, nel 2003 addirittura 350 e nel 2007 si toccò il primato italiano con 360 battesimi. Poi la discesa, per ora senza freno: nel 2014 i nuovi registrati sono stati solo duecento.
«Ci mancano i dati dei decessi », spiega Giuseppe Museo, direttore di Csvnet, «ma ad oggi possiamo avanzare due ipotesi. Uno, è finita la frammentazione e il volontariato italiano è diventato maturo: diverse strutture, non a caso, si sono irrobustite. Due, il mercato nostrano della
charity con quattro milioni e mezzo di volontari organizzati è saturo». Il resto della domanda, secondo questa interpretazione, sarebbe accolta dal volontario
free — due milioni e mezzo di persone, secondo altre fonti — , che agisce senza tempi certi, senza iscriversi a nulla, in maniera spesso estemporanea per difendere un parco o sistemare una scuola. È il volontario liquido al tempo dei social e dei Cinque Stelle: la sua ansia di dono e di collettivo si esprime fuori dai recinti dell’organizzazione, su obiettivi singoli e motivanti.
Il dato che viene fuori — gruppi certificati che non crescono nel numero, quote di attivisti stabili o in leggero aumento — fa pensare che il settennato horribilis abbia funzionato, come per le imprese, nel far chiudere le associazioni più piccole e recenti consentendo a chi è storicamente strutturato di trovare dimensioni ampie e funzionalità migliori. Il report dice anche, infatti, che le organizzazioni di volontariato minori (per numero di volontari e soci) sono le più giovani: il 50% delle più piccole è stato costituito dal 2000, il 50% delle più giovani dal 2003. All’aumentare dell’anzianità delle Odv aumentano anche le loro dimensioni. La metà delle strutture con più di 60 volontari ha oltre 25 anni di storia e le organizzazioni con oltre 400 soci hanno costruito il loro patrimonio nel corso di almeno 35 anni di attività.
È un mondo davvero eterogeno, quello del Terzo settore: ci sono organizzazioni con un (uno) attivista e altre con 50 mila. Bene, grazie al primo Report nazionale ora sappiamo che l’associazione media è composta da 16 volontari. Solo il 15% delle Odv supera i 50. Poco più del 10 per cento ha oltre 500 soci. E solo l’uno per cento (quattrocento organizzazioni in tutto) si muove in un ambito internazionale. Il 48 per cento (oltre ventimila realtà) ha come territorio il comune di riferimento.
Edoardo Patriarca, dal 1999 al 2006 portavoce del Forum del Terzo settore, oggi deputato Pd, dice: «Le organizzazioni di volontariato somigliano sempre più a piccole imprese. Tengono nonostante la crisi economica, nonostante lo sfilacciamento del tessuto sociale, ma stanno invecchiando. Il ricambio generazionale è lento e la capacità di attrarre nuove generazioni non sempre efficace. Il volontariato sconta grossi problemi al Sud, dove c’è maggiore difficoltà economica e di lavoro e inefficienza amministrativa. La riduzione della frammentazione che si legge nel censimento significa da una parte una maggiore efficienza nell’azione sul territorio e dall’altra una difficoltà a innovarsi, a stare sulla frontiera delle nuove sfide sociali. Il volontariato italiano ha una sincera difficoltà a posizionarsi nel tempo contemporaneo ».
Il teorico della materia è l’economista Stefano Zamagni, che dice: «Tra il 2007 e il 2014 ci sono stati due fenomeni che hanno spiazzato questo mondo. Da una parte la crescita di coop sociali, associazioni di promozione sociale, imprese sociali che hanno corroso il volontariato puro. Dall’altra la crisi economica, che ha portato via quella fetta di persone che ha dovuto preoccuparsi innanzitutto di trovare un lavoro e poi ha obbligato le organizzazioni a ridurre i costi». Un esempio: «In una città dell’Emilia di 80.000 abitanti si contavano 600 associazioni. Non potevano restare in piedi e molte si sono fuse. Uun Terzo settore adulto oggi deve vivere di biodiversità: ong, coop, odv. E deve ibridare il profi tcon il no profit . Questo mondo resta un polmone, una riserva, che però mantiene un senso se custodisce il principio del dono. Se perdiamo quello, resta solo la foresta di belve raccontata da Hobbes».