I due volti di Vienna

by redazione | 20 Ottobre 2015 9:18

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VIENNA. «Wel­come refu­gees, qui siete al sicuro …» ras­si­cu­rano i mani­fe­sti del comune di Vienna ancora affissi nei punti di arrivo del West­bah­n­hof, sta­zione ovest, in arabo, farsi e inglese, spie­gando i ser­vizi a dispo­si­zione. L’altra fac­cia del paese la mostra il mini­stero degli Interni di Johanna Mikl Leit­ner, par­tito popo­lare (Oevp) che i rifu­giati li pre­tende sen­za­tetto, met­tendo sotto ipo­teca le sto­rie happy che da qui potre­sti rac­con­tare. Con una netta linea pro-rifugiati il par­tito social­de­mo­cra­tico (Spoe) del sin­daco Michael Haeupl ha vinto ancora alle comu­nali vien­nesi dell’11 otto­bre sullo sfi­dante raz­zi­sta H.C. Stra­che della Fpoe che ha rag­giunto comun­que il suo migliore risul­tato.

Sabato sono arri­vati al con­fine austriaco di Nic­kel­sdorf 4.155 rifu­giati, gli ultimi che hanno attra­ver­sato l’Ungheria recin­tata ora anche sul ver­sante croato. Dall’apertura dei con­fini lungo la rotta bal­ca­nica hanno attra­ver­sato lo snodo per Vienna 270mila per­sone. Come fun­ziona l’accoglienza dopo sei set­ti­mane di flusso con­ti­nuo? Con­cre­ta­mente la città cosa fa? Abbiamo ten­tato una rico­gni­zione di luo­ghi e sog­getti per capirlo.

West­bah­n­hof
Sta­zione ovest. Posta­zione della Cari­tas. Flusso inin­ter­rotto di gente che con­se­gna bustoni di banane, acqua pane .… Ma è calato dicono, non si fa più la coda per donare. Il depo­sito di cibo è ben for­nito, prima tra­boc­cava. «Ce la fac­ciamo comun­que a rifor­nire di cibo la gente con le sole dona­zioni». Ton­nel­late ogni giorno di vestiti che vanno messi in ordine. Volon­tari che con­ti­nuano ad offrirsi. Frotte di instan­ca­bili inter­preti, qui puoi stu­diare dal vivo le ondate di migra­zioni di Vienna. Ma schiz­zano via, sono pre­gati via alto­par­lante di recarsi al bina­rio 1. Alle 18 parte un treno spe­ciale per Sali­sburgo, vicino al con­fine con la Ger­ma­nia, oltre i treni spe­ciali non pos­sono andare. Ecco il bina­rio pieno di uomini, donne, tanti bam­bini in attesa di salire. Clima disteso, senza ressa par­ti­co­lare, tutti sanno che la mat­tina ci sarà un altro treno. Sco­priamo un gruppo di curdi siriani, pesh­merga da Kami­sha, lì rac­con­tano, sono stati seque­strati tre­mila donne e bam­bini. «Non ce la fac­ciamo più, abbiamo biso­gno di tran­quil­lità, di una tre­gua. Poi tor­ne­remo in Siria, per pren­dere i fami­liari e con­ti­nuare a com­bat­tere». Il viag­gio fino a qui? Il tratto peg­giore per tutti è sem­pre l’ Unghe­ria «poli­zia e mili­tari che ti urlano adosso. pensi che in ogni momento ti basto­nano» dice Ismail, 17 anni. Dure le cam­mi­nate in Croa­zia sotto la piog­gia, le notti senza nean­che una tenda. Una fami­glia di Dama­sco Ham­man, Waela la moglie, i due bam­bini Lamar e Nerez. Lui lavo­rava in un indu­stria di auto­mo­bili distrutta dalla guerra. «In Unghe­ria ci trat­ta­vano come ani­mali, ci hanno rin­chiusi in un treno fermo senza farci uscire per 12 ore, poi altre sei ore in un auto­bus tutto bagnato, sti­pati in mille per­sone e senza mai darci alcun cibo». Per loro sta­sera in treno non c’è più posto. Non ven­gono sti­pati al più non posso, si viag­gia solo seduti. Dor­mi­ranno qui una seconda notte. Più tardi arri­vano gli auto­bus spe­ciali dell’esercito, delle poste o dei tra­sporti comu­nali che ogni giorno por­tano in alloggi di tran­sito i rifu­giati rima­sti nelle sta­zioni. Sono circa 7mila posti letto, repe­riti in spazi dismessi, castelli com­presi, appo­si­ta­mente allestiti.

Haupt­bah­n­hof, la nuova sta­zione
In un area con­qui­stata tutta sua ecco train of hope , una strut­tura straor­di­na­ria auto­ge­stita che ti avvolge subito col suo flow di empa­tia e spi­rito occupy. È comin­ciato con un hash­tag, #trai­no­f­hope, lan­ciato sull’onda della mani­fe­sta­zione Men­sch sein in Oester­reich, essere per­sone in Austria del 30 ago­sto che coin­ci­deva col primo treno giunto dall’Ungheria. Ashley Win­kler, gra­phic desi­gner, una delle coor­di­na­trici è atti­vi­sta della prima ora. Si è licen­ziata per con­ti­nuare il lavoro qui. «E’ più impor­tante aiu­tare, se solo penso cosa hanno sof­ferto le per­sone che arri­vano qui» dice. Tanto coin­volta che ha dimen­ti­cato di man­giare, dima­grendo otto chili. «Ora badiamo di più anche a noi stessi, gli psi­co­logi che seguono i rifu­giati adesso si occu­pano anche di noi». Anche Domi­nik si è licen­ziato, faceva il some­lier. «Qui ho cono­sciuto cose di me stesso che non cono­scevo, anche degli altri e del mondo» spiega. Quando ha comin­ciato ha scritto ai suoi nuovi com­pa­gni «vor­rei spo­sarvi tutti». Qui, tra quelli che aiu­tano, che fug­gono o che tra­du­cono ti si apre un micro­co­smo glo­bale di nar­ra­zioni infi­nite. Ecco il tavolo con i pasti caldi, un pen­to­lone con 100 chili di riso al curry, accanto un altro con 100 litri di zuppa di len­tic­chie, cuci­nati nel tem­pio dei sikh. «Siamo stan­chi ma biso­gna aiu­tare» dice Alla­din barba lun­ghis­sima e tur­bante bianco. Il posto è aperto sem­pre, 24 ore su 24. Ban­chi coi vestiti, arti­coli igie­nici, un uffi­cio mis­sing per­sons, social media, desk cen­trale coor­di­nato con ong e isti­tu­zioni, una sala gio­chi per bam­bini. Un «laz­za­retto” for­nito di defi­bril­la­tore e riso­nanza magne­tica, sem­pre auto­ge­stito, le visite medi­che sono con­ti­nue, molta gente non dorme in un letto da 20 giorni, non poteva lavarsi, addosso vestiti troppo leg­geri, i piedi mar­to­riati. Par­liamo con gente stanca seduta per terra, una fami­glia curda di Mosul, un gruppo di ragazzi afghani gio­va­nis­simi che pren­dono tutto a ridere.

Casa per richie­denti asilo
È una strut­tura tem­po­ra­nea, prima è stata solo allog­gio di tran­sito. «Non sap­piamo come chia­marla, la situa­zione è fluida in con­ti­nuo movi­mento, ma siamo pre­pa­rati a tutto» dice Ale­xan­der Troe­bin­ger della Croce Rossa, che gesti­sce que­sto posto per conto del comune. Siamo nella Lin­den­gasse, set­timo distretto, quar­tiere gover­nato dai Verdi. Il cibo è por­tato qui dall’esercito. «E’ molto buono, pos­siamo man­giare in con­ti­nua­zione e quanto vogliamo» dicono gli ospiti che tro­viamo appunto man­giando. «Chie­diamo asilo qui, siamo due fami­glie, era­vamo stan­chi, l’Austria è un posto molto buono, per­ché allora pro­se­guire per la Ger­ma­nia?» dice Mustafa. Faceva il con­du­cente di auto­bus a Bag­dad. Con lui She­he­ra­sad la moglie, Isben la figlia e Lativa, l’anziana madre. Emir, 22 anni anche lui di Bag­dad aveva uno shop di tatoo «ti ucci­diamo se non lo chiudi», Basha, cuoco ven­tenne «o ci segui o ti ucci­diamo» lo minac­ciava la mafia, rac­conta. Non cono­scono il volan­tino dis­sua­sivo che distri­bui­sce il mini­stero degli Interni. In sola lin­gua tede­sca scrive: «E’ impos­si­bile asse­gnarle un posto di presa in carica dello stato, ne pre­di­sporre tra­sporti gra­tuiti verso strut­ture sta­tali per rifu­giati o verso il cen­tro di prima acco­glienza». «Il mini­stero degli interni non fa il pro­prio dovere e il pro­prio com­pito — si indi­gna il dele­gato per i rifu­giati del comune di Vienna Peter Hac­ker -, a que­sta ina­dem­pienza dob­biamo sup­plire noi».

Allog­gio nella Ben­del­gasse
È per richie­denti asilo, distretto Meid­ling. Incon­triamo Hay­sal, 37 anni inse­gnante di inglese e infer­miere spe­cia­liz­zato. Di Hashad, città «molto reli­giosa» vicina a Tehe­ran, lui al con­tra­rio ha abban­do­nato l’islam, è senza barba e gira in maglietta, ere­sie che si pagano con la morte. Né si può pren­dere moglie da are­li­gioso. Per fug­gire ha pagato 2700 euro ai tra­ghet­ta­tori spa­riti appena entrati in Unghe­ria, dalla Ser­bia, tagliando il filo spi­nato. Gli occhi di quest’uomo alto e ben piaz­zato si riem­piono di lacrime. «Mi sono sen­tito trat­tato come un ani­male, anziani e bam­bini che chie­de­vano aiuto invano, la poli­zia ci ha costretti a cam­mi­nare a piedi 70 chi­lo­me­tri fino a Sze­ged. Durante il tra­gitto in barca dalla Tur­chia a Miti­lini ne abbiamo visto un altra che si capo­vol­geva». E’ entu­sia­sta di Vienna «In sta­zione a distri­buire bot­ti­glie d’acqua c’era anche un pro­fes­sore uni­ver­si­ta­rio, un inge­gnere, una cosa impen­sa­bile da noi». Così ha deciso di chie­dere asilo qui. L’avrà? Il mini­stero degli interni già molto restrit­tivo sta ela­bo­rando una nuova for­mula di asilo a ter­mine, incerta ancora la posi­zione dell’alleato di governo social­de­mo­cra­tico del can­cel­liere Wer­ner Faymann.

Cen­tro crisi per bam­bini
Dre­h­scheibe, turn­ta­ble in inglese, cen­tro crisi spe­ciale per bam­bini del Comune che si occupa di bam­bini soli, rifu­giati o migranti. (Ci tro­viamo a Sim­me­ring, quar­tiere popo­lare ex-rosso pas­sato alla Fpoe). Il posto è tutto rin­no­vato, spazi gene­rosi, pareti dipinti dai bam­bini coll’aiuto di stu­denti dell’Accademia di Belle Arti. «Ogni giorno arri­vano da noi due bam­bini tro­vati in giro soli, la mag­gio­ranza è dell’Afghanistan» spiega la diret­trice del cen­tro Karin Hir­schl. I bam­bini riman­gono qui fino a tre mesi, il tempo neces­sa­rio per rimet­terli in sesto e chia­rire come e dove inse­rirli: in pic­cole comu­nità allog­gio o presso fami­glie. «Due fra­telli soli di 16 e 8 anni vole­vano per forza andare in Ger­ma­nia, era l’impegno preso dal più grande con la sua fami­glia. Li abbiamo con­vinti di rima­nere, il più pic­colo era troppo debole e malato per pro­se­guire». La Dre­h­scheibe si è fatto carico anche dei minori del discusso cen­tro di prima acco­glienza di Trai­skir­chen , seguendo la diret­tiva del sin­daco di Vienna Michael Haeupl, sup­plendo anche qui all’incapacità del mini­stero degli Interni di garan­tire ai minori non accom­pa­gnati un trat­ta­mento ade­guato.
Spe­riamo che i 100 esperti austriaci pro­messi per l’istallazione del famoso hotspot in Gre­cia non siano scelti dalla mini­stra Johanna Mikl Leitner.

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