Hashem Azzeh, esistenza come resistenza

by redazione | 23 Ottobre 2015 10:05

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Territori occupati. E’ morto il medico palestinese, sostenitore della non violenza, che per 20 anni ha raccontato Hebron e della sua famiglia circondata da coloni e soldati israeliani. Due giorni fa ha avuto un malore, a causa dei posti di blocco è stato costretto ad andare a piedi all’ospedale ma a Bab Zawiyeh ha trovato ad attenderlo una nuvola di gas lacrimogeno..

GERUSALEMME. Chiun­que volesse capire cosa signi­fica vivere a Hebron sotto occu­pa­zione, cir­con­dato da posti di blocco mili­tari e da coloni israe­liani deci­sa­mente poco ami­che­voli, doveva andare a casa del dot­tor Hashem Azzeh nel quar­tiere di Tel Rumeida. Per com­pren­dere quella realtà doveva ascol­tare i rac­conti di vita quo­ti­diana di que­sto medico pale­sti­nese colto e dai modi gen­tili, con­tra­rio alla vio­lenza, dive­nuto nel corso degli anni l’incarnazione nella sua città del “sumud”, la resi­lienza pale­sti­nese nelle con­di­zioni più dure. «Non me ne vado, non riu­sci­ranno a cac­ciarmi da casa mia», ripe­teva. La sua stessa esi­stenza è stata un atto di resi­stenza. Hashem Azzeh, 54 anni, se n’è andato due giorni fa, è morto men­tre cer­cava di rag­giun­gere l’ospedale tra lo sgo­mento della fami­glia e degli amici, pale­sti­nesi e stranieri.

Mer­co­ledì Azzeh aveva accu­sato forti dolori al petto. Ha capito subito che doveva cor­rere all’ospedale più vicino. La sua fami­glia ha chia­mato un’ambulanza che non è stata in grado di rag­giun­gere l’abitazione a causa dei posti di blocco dell’esercito, ancora più rigidi dopo l’inizio della nuova Inti­fada. Il medico non ha avuto scelta. Si è incam­mi­nato verso Bab Zawiyeh, che divide il set­tore H1 pale­sti­nese dal set­tore H2 con­trol­lato dai mili­tari israe­liani. Lì ha tro­vato i sol­dati che spa­ra­vano lacri­mo­geni verso i gio­vani che lan­cia­vano sassi, in pro­te­sta per l’uccisione di due ragazzi pale­sti­nesi avve­nuta la sera prima.

«In quell’aria satura di gas lacri­mo­geni mio zio, già molto debole, ha avuto una crisi respi­ra­to­ria. È crol­lato per­dendo cono­scenza», rac­con­tava ieri Sun­dus, la nipote. Soc­corso, il dot­tor Azzeh è giunto all’ospedale in con­di­zioni dispe­rate. I medici hanno potuto fare ben poco per sal­varlo. È dif­fi­cile sta­bi­lire quanto i lacri­mo­geni abbiamo con­tri­buito alla morte del medico pale­sti­nese, con ogni pro­ba­bi­lità col­pito da un infarto. Certo un con­tri­buto alla sua morte è venuto da quei posti di blocco che da oltre venti anni cir­con­dano la sua abi­ta­zione, dai con­trolli asfis­sianti attuati a Hebron anche nei con­fronti del per­so­nale sani­ta­rio pale­sti­nese. Se fosse stato por­tato subito in ambu­lanza all’ospedale, Azzeh avrebbe avuto qual­che pos­si­bi­lità in più di salvarsi.

Ieri in tanti lo hanno accom­pa­gnato nell’ultimo viag­gio. Gente in lacrime, volti segnati dal dolore, pale­sti­nesi e stra­nieri. Tutti uniti nel ricor­dare la sua ferma deci­sione di non abban­don­dare la sua abi­ta­zione, anche se ogni giorno solo per andare a com­prare il latte alla bot­tega accanto casa, la sua fami­glia era (e sarà ancora) costretta a pas­sare per metal detec­tor e con­trolli. Ogni volta, ad ogni pas­sag­gio. Un trat­ta­mento al quale non devono sot­to­porsi i “vicini”, i coloni che vor­reb­bero vedere que­sta fami­glia pale­sti­nese lasciare Tel Rumeida. «Gli ave­vano offerto soldi per andare via – ricorda Jawad, un gio­vane atti­vi­sta di Hebron –Hashem però aveva sem­pre rifiu­tato. Ripe­teva che se tutti i pale­sti­nesi par­tis­sero o accet­tas­sero di ven­dere casa ai coloni, sarebbe la fine per Hebron e per il nostro popolo».

Azzeh orga­niz­zava “visite gui­date” per gior­na­li­sti e atti­vi­sti, durante le quali con toni mai accesi spie­gava cosa avviene a Hebron e intorno alla sua abi­ta­zione. Con fil­mati ama­to­riali ha rac­con­tato gli abusi subiti dai figli e dalla moglie, da tutta la sua fami­glia, ai quali il medico ha sem­pre rispo­sto con le parole, senza vio­lenza, pro­nun­ciando la stessa frase «Non me ne vado». E con quelle parole rispon­de­ranno in futuro la moglie e i quat­tro figli, il mag­giore ha 17 anni, il più pic­colo appena cinque.

Ieri a Bet She­mesh un israe­liano è stato ferito con una col­tel­lata da un pale­sti­nese, poi ammaz­zato dalla poli­zia. Poche ore prima un ebreo era stato ucciso da una guar­dia di sicu­rezza, dopo aver cer­cato di pren­dere l’arma a un sol­dato, per­chè scam­biato per un pale­sti­nese. Sono decine i gio­vani arre­stati da poli­zia ed eser­cito nelle ultime 48 ore a Geru­sa­lemme Est e in Cisgior­da­nia, oltre 800 dall’inizio di otto­bre secondo fonti pale­sti­nesi. «Que­sta crisi non sarebbe scop­piata se i pale­sti­nesi aves­sero avuto la spe­ranza di un pro­prio Stato – ha detto ieri al Con­si­glio di Sicu­rezza il vice segre­ta­rio gene­rale dell’Onu, Jan Elias­son – Se i pale­sti­nesi non vives­sero sotto un’occupazione sof­fo­cante e umi­liante che dura da quasi mezzo secolo».

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