«Giù le mani dalla Carta» Le accuse a parti invertite tra proteste rituali e sbadigli
by redazione | 14 Ottobre 2015 13:37
«Giù le mani dalla Costituzione!», urlavano in coro da sinistra. «Stiamo facendo solo ciò che nel 1947 non fu possibile fare perché una parte della Costituente era favorevolmente orientata a imporre in Italia il modello sovietico!», rispondevano a destra. «Taci, buffone! Bugiardo! Sei un delinquente politico!»
Direte: che storia è questa? È la cronaca a parti rovesciate, dieci anni fa, dell’approvazione della «Grande Riforma» della destra. Contro la quale saltò su urlando al Colpo di Stato la sinistra. Direte: che c’entra col voto di ieri in Senato? C’entra. Perché è impossibile capire quel che è accaduto ieri a Palazzo Madama, dove è stato fatto il passo forse definitivo per la riforma che lo stravolgerà, se non si tiene conto del gioco delle parti. Di qua fulmini e saette, di là cieli sereni.
Uno dei passaggi chiave, in una giornata ad altissima tensione, non è successo in aula, dove pure sono volati gli stracci, ma nella riunione dei senatori di Forza Italia. Dove l’ex Cavaliere, buttato fuori dal Senato alla fine del 2013 sulla base della legge Severino, mentre i suoi uomini discutevano sulla posizione da prendere prima ancora che sul voto finale (votare contro? uscire dall’aula?) sull’atteggiamento da tenere con Giorgio Napolitano, è sbottato a brutto muso: «Io Napolitano non lo farei neanche parlare: come può parlare chi ha fatto un golpe?» Parole durissime: «Nel libro di Friedman viene fuori molto bene la complicità fra Napolitano e ciò che determinò le mie dimissioni».
Ma come, gli rinfaccia Fabrizio Cicchitto: non era stato lui a volerlo ancora al Quirinale ad aprile del 2013 per uscire dall’impasse? Non aveva detto lui d’esser «molto soddisfatto» della rielezione e delle sue parole? «Il discorso più ineccepibile e straordinario che io abbia mai sentito in 20 anni», disse. Scrisse addirittura una nota: «Ringrazio il Presidente Napolitano per lo spirito di servizio e per la generosità personale e politica…»
Sì, due anni fa però. Tutto cambiato. Alla stima, esibita finché non fu rifiutata la grazia, è subentrato l’astio. Il rancore. La rilettura di tutto nella chiave del complotto. Al punto che quando l’ex capo dello Stato sta per prendere la parola in aula, tutti i «tele» dei fotografi son puntati su di lui. Nella certezza che ci sia nell’aria una contestazione pesante. Falso allarme. Buona parte degli azzurri si limita a filar via. Solo Mimmo Scilipoti, quello che piantò Di Pietro per soccorrere Berlusconi nella fatidica conta contro Gianfranco Fini gli si piazza davanti con un cartello. C’è scritto «2011». Come a dire: tu sai che io so che nel 2011 fosti tu a buttar giù il Cavaliere…
E con loro se ne vanno i grillini che sul ruolo di «Sir George» la pensano come Beppe Grillo. Il quale sul blog, mettendo insieme Napolitano, Renzi e Berlusconi si era avventurato in un paragone insensato: «Meglio Pinochet di questi sepolcri imbiancati e bimbominkia assortiti». Pinochet! Gianluca Castaldi attenua i toni, ma non troppo. E accusa l’asse Renzi-Verdini di aver messo a punto una riforma su misura per conservare lo scranno di senatore a vita proprio all’ex inquilino del Colle, «quello che faceva il Presidente della Repubblica di giorno e di notte redigeva il disegno di legge governativo che vi votate oggi».
Il vecchio presidente a lungo osannato («è come tutti i vini rossi: più passano gli anni e più migliorano e lui rosso lo è stato veramente», sviolinò un giorno Roberto Calderoli) parla così a un’aula spaccata a metà: piena zeppa e affettuosa la parte di sinistra, semivuota e ostile quella di destra. È amareggiato per la cagnara. Convinto di non meritare tanta ostilità. Ma tiene il punto. Rivendica. Elogia. Incoraggia. Quando se ne va, coi cronisti che gli chiedono se il voto gli avesse dato delle delusioni, abbozza: «Mi fate domande che sono politico-psicologiche. Io già sono riluttante a rispondere a quelle politiche, ci mettete pure la psicologia…»
Roberto Calderoli, che dieci anni fa aveva firmato quella Grande Riforma e irrideva ai lamenti della sinistra che gridava al golpe («Quando si vedono reazioni abnormi, rabbiose e la schiuma alla bocca, di solito, bisogna chiamare con urgenza un veterinario perché ci si trova solitamente di fronte ad un caso di rabbia pericolosa per la bestia e per l’uomo») è il più catastrofico di tutti.
Certo, anche Francesco Campanella eletto con il M5S e ora con Tsipras, dipinge un quadro nero nero dove «sarà impossibile sfiduciare il Governo, mentre costruirà inceneritori vicino alle case, schiaccerà il diritto di sciopero, chiuderà gli ospedali…». E Loredana De Petris denuncia che la riforma «dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza» e paventa il rischio che il nuovo Senato sia «una sorta di dopolavoro». E Mario Mauro si scaglia contro «la banda che ha vinto, ed è giusto che siano i padri prepotenti, non quelli costituenti, a votarsela da soli». E Paolo Romani sibila che «il Pd rappresenta una minoranza degli italiani, e cambia le regole contro il parere di tutti» E Corradino Mineo, citando Michele Ainis, tuona sulla fine della nostra forma di governo, «viva ma esangue come una fanciulla addentata dal vampiro».
Ma è l’odontoiatra bergamasco, dicevamo, il più apocalittico. La diretta tivù al pomeriggio quando la gente lavora? «Il regime e la censura di sovietica memoria sono già cominciati». La riforma? «Il popolo non solo vorrebbe abolire il Senato, ma vorrebbe cancellare tutto il Parlamento e l’intera classe politica, che merita di andarsene a casa, il prima possibile e per sempre». Di più: «Oggi con questa riforma muore la nostra democrazia». Fino al petardo finale: «Oggi approviamo una nuova Costituzione, quella voluta da Licio Gelli».
«Ma se ci avete governato vent’anni con tanti iscritti alla P2!», avrebbero gridato un tempo da sinistra. Stavolta niente. Niente contestazioni. Niente insulti. Solo qualche borbottio. Pochi sorrisetti ironici. Qualche sbadiglio. Maria Elena Boschi armeggia senza sosta con il telefonino. Luca Lotti si affaccia e se ne va. Noia. La noia di chi è sfinito da un braccio di ferro interminabile ed è a un passo dal portare a casa quello che Matteo Renzi e la maggioranza volevano. Voti finali «solo 179», sottolineano da destra. Giusto, ma dieci anni fa, quando dall’aula era uscita la sinistra, i voti a favore erano stati 162. E torniamo sempre lì. A un paese spaccato a metà. Dove tutti gli angeli sono da una parte, tutti i demoni dall’altra. A fasi alterne…