Fucilate nel college è strage in Oregon “Di che religione siete?” Poi il killer fa fuoco

by redazione | 2 Ottobre 2015 9:10

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NEW YORK . La maledizione delle armi colpisce ancora l’America. E di nuovo l’epicentro dell’orrore è una scuola. «Almeno 13 morti, una ventina i feriti», dice la polizia in un bilancio provvisorio. E nelle prime ore c’è il sospetto che il fanatismo religioso abbia armato l’autore del massacro. L’incubo comincia alle 10.38 del mattino (le 19.38 in Italia) con la prima telefonata al 911, il numero delle emergenze. «Stanno sparando nell’aula d’informatica», grida una voce. L’origine della chiamata è l’Umpqua Community College, vicino alla cittadina di Roseburg, 480 km a sud della capitale Portland. Una grossa università con tremila studenti a tempo pieno e 16.000 a part-time. Sui social media arrivano le prime conferme. «Trenta colpi da fuoco in rapida successione, un’arma automatica”. L’assalitore ha diversi minuti a disposizione per uccidere indisturbato, le prime ricostruzioni dei testimoni descrivono «un’esecuzione, un massacro metodico». L’aggressore armato entra prima nello Snyder Hall, uno dei maggiori edifici accademici al centro del campus universitario, poi si sposta nel Science Building, dove si trovano anche i laboratori d’informatica. «È un ventenne. La sera prima ha avuto delle conversazioni online che stiamo studiando, da lì forse emergeva qualche segnale sul suo piano», questa la prima descrizione della polizia. Se confermata questa versione, si tratterebbe di un’altra strage annunciata, con segnali premonitori disseminati in anticipo sui social media. La polizia locale nelle primissime ricostruzione esclude terrorismo o altri moventi “politici”. Ma è contraddetta da una testimone, Kortney Moore, studentessa di 18 anni, che si trovava nell’aula Writing 115 di Snyder Hall quando sentì i primi spari dalla finestra. «Il nostro prof è stato colpito alla testa. Lo sparatore è entrato ha ordinato di gettarci a terra, poi di alzarci e dichiarare la nostra religione, quindi ha aperto il fuoco».
Il resto assomiglia terribilmente alla cronaca di tante altre stragi, così simili da richiamare il fenomeno “ copycat”, l’emulazione della ferocia criminale. Su Facebook e su Twitter dalle 10.38 in poi, minuto per minuto, s’infittiscono le testimonianze della paura: studenti rinchiusi nelle loro aule, che si scambiano i messaggi di allerta, professori che a loro volta raccomandano di chiudersi nelle stanze, di rimanere nascosti. Un macabro rituale ripassato ormai tante volte in scuole e università d’America, zone rassegnate a considerarsi come teatri di guerra, a fare addestramenti d’evacuazione, a simulare il peggio.
Poi il messaggio rivolto a tutti gli studenti e al personale universitario: «L’aggressore è stato neutralizzato e ucciso dopo uno scontro a fuoco con la polizia. Il campus è sicuro». Ma l’evacuazione delle aule si trascina per ore. Nella confusione iniziale si teme che l’aggressore abbia dei complici. Le tv rinviano immagini di studenti e docenti perquisiti, costretti a uscire uno alla volta, con le mani alzate. Sul campus convergono decine di auto della polizia, ambulanze, elicotteri per il trasporto dei feriti: alcuni verranno evacuati fino agli ospedali della città di Eugene.
A differenza di Charleston (dove un suprematista bianco aprì il fuoco su fedeli afroamericani a scuola di catechismo) nell’Oregon non c’è una tradizione razzista o segregazionista, né particolari tensioni tra comunità etniche. Siamo nella parte settentrionale della West Coast, un po’ più a nord dal confine della California, una zona liberal, tollerante e progressista. L’Oregon è abituato a fare notizia perché all’avanguardia nella liberalizzazione della marijuana.
Nella lunga lista di stragi con armi da fuoco, c’è un elenco speciale di sparatorie avvenute dentro scuole e università. Solo per ricordare quelli in cui il bilancio delle vittime fu più pesante, si comincia nel 1999 a Columbine dove due adolescenti uccisero 13 compagni di liceo, poi si suicidarono (Michael Moore dedicò a quella tragedia un suo documentario). Nel 2007 al Politecnico Virgina Tech lo studente Seung Hui Cho fece 32 morti. Nel dicembre 2012 a Sandy Hook nel Connecticut Aam Lanza uccise 20 alunni della scuola elementari, sei insegnanti, prima di puntare l’arma anche sua madre e suicidarsi.
Barack Obama è stato informato immediatamente. Il suo portavoce Josh Earnest ha riferito la sua reazione: «Passare leggi che possano proteggere le nostre comunità dalla violenza delle armi continua ad essere una priorità per questo governo. Il presidente è molto esplicito nel dire che questo è fonte di frustrazione per lui».
Ma nelle reazioni a caldo si è riprodotta la consueta spaccatura. Il campus di Roseburg era stato proclamato “Gun Free Zone” cioè un’area dove era proibito introdurre armi. La lobby delle armi ha colto la palla al balzo, un commentatore su Cnn ha detto: «A che serve proibire le armi? Chi deve fare una strage ignora i divieti. Sono le vittime che girano senza armi». Ricomincia il balletto macabro del dopo-stragi, da una parte le mobilitazioni per ottenere leggi più restrittive, dall’altra i sostenitori della National Rifle Association (la lobby delle armi) pronti a rintuzzare l’offensiva proponendo che le armi le portino i professori e gli studenti, «e che siano addestrati a difendersi ».
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