by redazione | 8 Ottobre 2015 15:28
Stop Ttip. C’è chi dice no: ieri a sorpresa la Commissione europea si è vista recapitare oltre 3 milioni e 200mila firme raccolte in 24 paesi europei. Ma intanto si scatena un nuovo vortice di derrate e container: mentre prosegue il negoziato con la Ue, gli Usa siglano un accordo analogo con 11 paesi che insieme valgono il 40% del Pil mondiale
Ieri mattina a sorpresa la Commissione europea si è vista recapitare davanti all’ingresso del suo palazzo a Bruxelles un muretto di pacchi di carta. Contenevano le oltre 3 milioni 200mila firme che le reti Stop Ttip hanno raccolto in 24 paesi d’Europa in oltre un anno di campagna intensa contro il trattato di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti che sta negoziando per l’Europa con gli Stati Uniti.
Poche ore prima, però, gli Stati Uniti avevano concluso dopo 9 giorni di intense trattative un accordo dello stesso tipo con 11 tra i più diversi paesi affacciati sull’Oceano Pacifico — Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam – che insieme valgono il 40% del Pil globale e che eliminando dazi e regole che fanno problema al commercio, si lanciano compatti all’assalto del mercato globale portando tutti i liberisti anche di casa nostra a chiedere che anche il Ttip venga approvato al più presto perché l’Europa non resti fuori da questo nuovo vortice di derrate e container.
D’altronde dal 19 al 23 ottobre i negoziatori europei e statunitensi si incontreranno ancora a Miami per discutere delle reciproche richieste, e si capirà immediatamente se l’effetto Tpp sarà riuscito a forzare quell’empasse che si era registrata il 22 settembre scorso a Washington.
La commissaria al commercio Ue Cecilia Malmstrom ha in quella data incontrato l’omologo ministro Usa Michael Froman, che le aveva risposto un secco no alla richiesta, considerata imprescindibile da Bruxelles, di mettere sul tavolo del Ttip la liberalizzazione di tutti i livelli di appalti pubblici di beni e servizi statunitensi (federali, statali e cittadini), a fronte dell’apertura già ottenuta da parte europea di tutte le nostre gare, fin a quelle di regioni e comuni, ai fornitori a stelle e strisce.
Il negoziatore Usa, che si è affrettato ad archiviare questa richiesta come «sensibile», ha anche respinto al mittente la proposta europea di ridefinizione dell’arbitrato che consente alle imprese di citare gli stati delle due sponde dell’Atlantico qualora introducano norme che nuocciono ai loro affari. È vero che cambierebbe in realtà solo di nome (da Investor to State Dispute Settlement o Isds a Investment Court System), ma sarebbe comunque difficile per lui spiegare perché governo e Congresso dovrebbero accettarne una ridenominazione, ha spiegato non senza malizia il ministro Usa, visto che le sue funzioni rimarrebbero le stesse. Nel Tpp approvato sull’altra sponda, inoltre, l’Isds è saldamente presente, come anche molti altri elementi dannosi per la tenuta sociale ma per la stessa economia dei paesi coinvolti, che sindacati, società civile ma anche rappresentanti di settori produttivi di quelle stesse nazioni hanno denunciato con forza subito dopo aver avuto la notizia del raggiunto accordo.
Oscar Rodríguez, Coordinatore per Messico e America centrale di Public Services International (Psi), ha spiegato che a beneficiare dell’accordo in Messico saranno appena 500 imprese che concentrano il 70% delle esportazioni manifatturiere del Paese, che nel 2014 le importazioni hanno superato le esportazioni di circa 110 miliardi di dollari statunitensi solo nell’interscambio con l’Asia e che questo ha già pesato sui già bassi salari nazionali e ha portato centinaia di piccole e medie imprese a chiudere i battenti lasciando a casa altre decine di migliaia di persone.
Festeggiano gli esportatori di carne americana, afflitti da una domanda interna stagnante, visto che ad esempio il Giappone ha deciso di abbattere le tasse d’importazione sul manzo dal 38% al 9%. Kendra Kimbirauskas amministratrice delegata e allevatrice del Socially Responsible Agricultural project ha spiegato che in Oregon rappresentanti di Big Meet già prevedono di triplicare la produzione per aggredire il nuovo mercato asiatico, «e non c’è nessuna possibilità con quella pressione produttiva di poter assicurare che crudeltà contro gli animali, inquinamento delle falde acquifere, dell’aria o sfruttamento del lavoro possano essere monitorate stante le nostre leggi e il loro potere».
Nel Tpp come nel Ttip c’è un capitolo sullo sviluppo sostenibile che genericamente tutela i diritti dei lavoratori «ma non introduce nessun meccanismo vincolante per difenderli, mentre le imprese hanno addirittura l’Isds, cioè un tribunale speciale per difendere i propri interessi», ha denunciato Sharan Burrow, la segretaria della federazione sindacale internazionale Ituc. E anche la National Farmers Union canadese si è fatta i suoi conti, e ha scoperto che la riduzione delle tariffe su latte, uova e derivati porterà a oltre 2,4 miliardi di dollari di perdita di entrate per i produttori nazionali per i prossimi 15 anni, che pure sono un settore forte nell’economia nazionale come anche nell’export. Nella macelleria globale, insomma, pochi vendono e tutti gli altri vengono serviti in tavola.
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