Crisi, scandali e colpi bassi in Brasile è assedio a Dilma e anche Lula la sfiducia

by redazione | 23 Ottobre 2015 9:34

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BRASILIA. IL PARLAMENTO del Brasile è uno dei luoghi più originali del mondo. Siccome può entrarci chiunque, basta presentare un documento, i suoi corridoi sono spesso attraversati da cortei interni di manifestanti che protestano. Ci sono gli indios dell’Amazzonia che hanno qualche problema da risolvere; femministe contro una nuova legge antiaborto; operai licenziati; ambientalisti: un putiferio di contestatori in cerca di ascolto e soluzioni come in una immensa agorà. Qui, l’opposizione al governo di Dilma Rousseff, cerca, da settimane, i numeri per ottenere l’avvio della procedura di impeachment della presidenta dopo gli scandali politici — Petrobras su tutti — e le grandi manifestazioni in tutte le principali città del Paese che hanno chiesto una svolta in una situazione che diventa ogni giorno di più ingovernabile.
L’assedio a Dilma è ormai un’agonia quotidiana in un contesto che sembra davvero quello della tempesta perfetta: crisi economica, crisi politica (il governo non ha più maggioranza parlamentare), e crisi istituzionale (almeno un quinto dei 500 deputati del Congresso sono coinvolti nelle indagini di corruzione). L’altro ieri è stata presentata al presidente della Camera, Alvaro Cunha, una nuova richiesta per la procedura di impeachment che dovrà valutare nei prossimi giorni. Cunha è un leader degli evangelici, è diventato presidente della Camera perché il suo partito, il centrista Pmdb, era alleato di Dilma. Ora è un suo nemico. E nell’esecutivo si teme che possa fare qualsiasi cosa, anche per spostare l’attenzione da una inchiesta che lo vede coinvolto e accusato di possedere fondi provenienti dalla corruzione in almeno quattro conti segreti in una banca svizzera. Nel parlamento brasiliano ci sono 28 partiti, molti piccoli e piccolissimi, che ballano da una parte all’altra intorno ai tre maggiori (Pt, sinistra; Psdb, opposizione; Pmdb, centristi) e quello che ieri sembrava improbabile, la messa in stato d’accusa di Dilma, domani potrebbe diventare facilmente realtà.
I fronti della battaglia oggi sono almeno quattro. C’è il tribunale dei Conti che ha respinto il bilancio delle spese del governo per il 2014. E sulla base del quale, per “irresponsabilità istituzionale”, è stata presentata l’ultima richiesta di impeachment. C’è il tribunale elettorale, che sta esaminando le denuncie sull’ultima campagna presidenziale (autunno 2014), nelle quali Dilma è accusata di uso di fondi illeciti. C’è il Parlamento. E c’è, infine, il tribunale del Parana, dove prosegue “Lava Jato” (lava auto), la madre di tutte le inchieste sulla corruzione politica. Gli scenari dell’accerchiamento alla presidenta sono due, ci spiega Carlos Zarattini, vice capogruppo alla Camera del Pt. Se l’impeachment inizia in Parlamento a cadere sarebbe solo lei e, particolare per nulla insignificante, a prenderne il posto fino alla fine del mandato (2018) sarebbe il vice presidente Michel Temer, esponente del Pmdb, stesso partito di Cunha, prima alleato e poi meno, del Pt di Lula. «E sarebbe un golpe », ripete Dilma. Se invece l’impeachment inizia nel tribunale elettorale cascano tutti e si va a nuove elezioni entro 90 giorni. Insomma una classica sceneggiatura dove colpi bassi, ricatti, e prebende da basso impero in Parlamento la fanno da padroni. In realtà l’altro problema sul palco del teatro politico è che l’opposizione è divisa sulla strada da seguire per ottenere l’obiettivo della fine anticipata della presidenta. Aecio Neves, il candidato dell’opposizione Psdb sconfitto da Dilma nell’ottobre scorso per una manciata di voti, punta dritto alla messa in Stato d’accusa mentre il padre nobile dello suo stesso partito, l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, invita alla calma, a evitare una rot- tura costituzionale e preferirebbe, forzando il tormento, le dimissioni di Dilma.
Isolata nella sua torre d’avorio presidenziale, l’elegante palazzo dell’Alvorada disegnato da Niemeyer, Dilma Rousseff sa benissimo che, se anche riuscirà a sopravvivere alla baraonda parlamentare, il suo destino lo deciderà l’economia. Dopo un fantastico decennio di crescita il Brasile è entrato in una recessione che, per gli esperti, durerà almeno due anni. La disoccupazione cresce e è previsto che entro febbraio 2016 superi la soglia psicologica del 10%. Il real, la moneta brasiliana, si è già svalutato di oltre il 30% in pochi mesi. Le maggiori agenzie internazionali di rating hanno derubricato il debito del Brasile al limite dei bond spazzatura nonostante il governo continui a contenere il deficit tagliando la spesa sociale. E qui scoppia l’ultima disgrazia di Dilma. Ormai è isolata soprattutto nel Pt, il suo partito. «Tagli, tagli e ancora tagli. Non può continuare così Bisogna cambiare la politica economica, scegliere misure anticicliche, lo Stato deve riprendere a investire », dice Carlos Zarattini.
Lula, leader indiscusso della sinistra brasiliana, ha chiesto la testa di Joaquim Levy, il ministro dell’economia liberista, scelto anche con il suo appoggio da Dilma l’anno scorso per rimettere a posto i conti del bilancio statale e calmare il nervosismo dei mercati. Ma lei, per ora, resiste. Convinta che solo risanando si potrà poi ricominciare a crescere. Lula, invece, che non nasconde il suo desiderio di ripresentarsi candidato alla presidenza non può rinunciare a quel che ha costruito: i 30 milioni di brasiliani usciti dalla miseria, parte dei quali, senza i programmi sociali dello Stato, rischiano di tornarci. Lo scontro è duro. E Lula, inseguito anche lui dai giudici del “Lava Jato”, soprattutto per colpa di figli e cognate che avrebbero approfittato della parentela per arricchirsi, viene ormai a Brasilia tutte le settimane per assediare, perfino lui, la presidentache scelse come erede. Cercò di convincerla già l’anno scorso a non ripresentarsi per un secondo mandato, ora vuole commissariarla. Almeno sulla politica economica.
Intanto, stasera, estradato dall’Italia, torna per scontare la condanna a dodici anni di carcere, Henrique Pizzolato, il banchiere del Mensaläo, il primo scandalo del partito dei lavoratori, al potere dal 2002. E un altro caos è servito. Un’altra spina per Dilma. L’opposizione festeggia convinta che ora Pizzolato parlerà ingrossando accuse, vere e presunte. L’agonia continua.
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