by redazione | 24 Ottobre 2015 11:01
È difficile guardare in faccia la guerra, i suoi orrori e le sue menzogne. È una attività quasi contronatura. Ancora più difficile raccontarla ogni giorno, nel momento in cui viene nascosta proprio da chi la sta preparando. È un lavoro defatigante, pretende razionalità passionale, perfino più dell’ottimismo della volontà ormai quasi introvabile. È il lavoro rigoroso e quotidiano che Manlio Dinucci svolge sulle pagine de il manifesto, in una scrittura che è fonte d’ispirazione per i movimenti pacifisti. Così ha pensato bene non solo di raccogliere i testi della brillante rubrica del martedì «L’arte della guerra», ma di aprire questa «cronaca» ad una ricostruzione politica e storica degli ultimi 25 anni a cavallo dei secoli. Il libro L’arte della guerra, con il sottotitolo «Annali della strategia Usa/Nato 1990–2015» (Zambon Editore, 549 pp. 18 euro, in libreria e da richiedere anche presso Diest Distribuzioni posta@?diestlibri.?it, Ama?zon?.it e altri distributori) abbraccia dunque un momento di svolta della storia recente. Che va dalla fine del Secolo breve al nuovo XXI Secolo, fortemente contrassegnato da rinnovati conflitti, così periodizzati: 1990–1991, il Golfo, la prima guerra del Dopo guerra fredda; 1991–1999, Jugoslavia, la seconda guerra del Dopo guerra fredda; 2001, l’Afghanistan, la terza guerra del Dopo guerra fredda; 2003, Iraq, la quarta guerra del Dopo guerra fredda; 2011, Libia, la quinta guerra del Dopo guerra fredda; 2013–2014 Ucraina, la nuova Guerra fredda.
Ci troviamo di fronte, come per un storico classico della latinità, alla forma «annale» degli avvenimenti umani. Individuando nella sigla Usa/Nato il protagonismo unico — dopo la caduta del Muro di Berlino — della nuova, infinita stagione militar-imperiale. Il titolo, L’arte della guerra, richiama il classico di teoria militare dell’antica Cina attribuito al generale e filosofo Sun Tzu vissuto tra il VI e il V secolo a. C. che spiega come si combatte una guerra. Il libro di Manlio Dinucci racconta invece di come sia necessario e vitale — pena la barbarie — combattere la guerra e le sue «ragioni», politiche, economiche, geostrategiche e falsamente «umanitarie».
A questo punto, una memoria personale che torna utile nell’occasione di questo importante libro. Era il 9 novembre 1989, nel quotidiano comunista il manifesto iniziava la riunione di redazione al quinto piano di Via Tomacelli 146. La notizia appena arrivata era che le autorità della Ddr avevano «inconsapevolmente» comunicato l’apertura dei varchi di passaggio verso la Rdt (la Germania dell’ovest), del Muro di Berlino. Era l’inizio della caduta festosa del Muro di Berlino. In molti tra i più giovani erano entusiasti; più dubitativi invece i meno giovani, legati alla storia della radiazione dal Pci, nel 1969, del gruppo che aveva accusato il partito di avere abbandonato Praga nelle mani della restaurazione di Mosca dopo l’invasione dell’agosto ‘68. Il manifesto, che aveva promosso ben due convegni internazionali sul potere e sull’opposizione nelle società post-rivoluzionarie a partire dall’Europa dell’Est, con Rossana Rossanda era già impegnato a sostenere la svolta politica straordinaria che Michail Gorbaciov, diventato segretario del Pcus nel 1985, aveva impresso all’Urss; e a seguire i cambiamenti, diversi uno dall’altro, che ne erano derivati nell’est e nel mondo. A giugno dell’89 c’era stata la strage della Tian An Men a Pechino, mentre rinascevano i pericolosi nazionalismi nella Jugoslavia. Ma anche Rossana Rossanda quella mattina era guardinga sulla grande «implosione» che accadeva sotto i nostri occhi. Più perplesso ancora il direttore del giornale Luigi Pintor. Dopo molti interventi tutti più che positivi sugli avvenimenti in corso (con l’auspicio: così cadranno anche i Muri dell’Occidente), gli sguardi si rivolsero interrogativamente proprio a lui. E Pintor alla fine sussurrò: «Io sento solo una grande puzza di guerra».
Che cosa volesse dire davvero e quanto avesse ragione Luigi Pintor sarebbe stato chiaro solo due anni dopo nel 1991, la stessa data della fine dell’Unione sovietica. Con la prima guerra occidentale all’Iraq a partecipazione anche italiana e con il nuovo protagonismo della Nato a partire dai Balcani. Perché il Patto atlantico, nato nel 1949 in funzione «difensiva» dopo la crisi di Berlino contro i paesi della sfera sovietica e l’Urss, con il crollo del nemico avrebbe dovuto perlomeno scomparire. Il Patto di Varsavia (costituito nel 1955 dopo l’ingresso della Germania ovest nella Nato) si era sciolto nel 1991. E invece alla fine del 1999 — dopo la guerra di 78 giorni di raid aerei «umanitari» sull’ex Jugoslavia — gli ex paesi del Patto di Varsavia, dentro l’accorta «strategia dell’allargamento a est» avrebbero fatto tutti parte dell’Alleanza atlantica, con basi militari, nuovi sistemi d’arma, progetti di scudo antimissile, prigioni della Cia e rinnovati bilanci militari. Tutti intorno alla Russia e alla sua simbologia residua dell’ex potenza sovietica. E questo ben prima di entrare nell’Unione europea e anzi come «prova» del loro adeguamento alla democrazia occidentale. Ben altro che la «casa comune europea» tanto auspicata da Gorbaciov prima di essere sconfitto.
Sia chiaro: non che prima dell’89 le guerre non ci fossero. Tragicamente rientravano nel conflitto tra i due blocchi, dentro la barriera invalicabile del terrore atomico. Intanto il Vietnam veniva insanguinato con due milioni di morti e venivano massacrate le rivoluzioni in Cile e poi in Angola e Mozambico; e poi l’Afghanistan con l’intervento speculare sovietico. La guerra era lontana ma non per questo meno criminale. Una sola era la certezza: l’Italia e l’Europa, pur schierate nel fronte occidentale impegnato nei conflitti, non partecipavano direttamente ai conflitti.
Ma fu proprio dal 1989, dalla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa del 1990 e dalla Commissione Badinter ancora della Cee, che la guerra, a partire dal Sud Est balcanico, tornava in Europa — altro che «miracolo», come racconta Matteo Renzi plaudendo alla presunta estraneità alla guerra dell’Europa in questo ventennio. E anche l’Italia, come sistema-militare e alleato strategico Nato, ne sarebbe stata protagonista, nel disprezzo della sua Costituzione fondativa.
Il libro di Dinucci mancava: è un dizionario storico della guerra in corso, una ricostruzione delle sue radici nella crisi economica e nel ruolo del capitalismo finanziario; uno strumento fondamentale per ritessere la tela della potenza mondiale del pacifismo sconfitta — a quanto pare una volta per tutte — il 24 marzo del 2003, quando George W. Bush, incurante della proteste che portarono in piazza cento milioni di persone, scatenò ad ogni costo la guerra contro l’Iraq. Infine è un breviario da utilizzare per dare aria e luce alla sinistra che non c’è e che relega l’argomento «guerra» in appendice ai documenti ufficiali.
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