by redazione | 8 Ottobre 2015 9:29
Aggiornamento delle 8.20: il sindacato Uaw e i vertici di Fiat-Chrysler hanno firmato nella notte (le 5 in Italia) una seconda bozza di contratto quadriennale da sottoporre al referendum degli operai iscritti al sindacato. La bozza sarà presentata alle 11 di mattina di venerdì, ora di Detroit.
I lavoratori dell’Uaw, il sindacato dei metalmeccanici americani, non fanno un giorno di sciopero dalla fine degli anni ’90 ma il declino della storica union dura dagli anni ’80.
Un sindacato che nel 1979 aveva oltre 1,5 milioni di aderenti oggi ne conta 380.000, di cui 140mila dipendenti dei tre big: Ford, General Motors e Fiat-Chrysler (Fca).
Mentre scriviamo, le trattative tra Fca e l’Uaw vanno avanti «a oltranza»[1], dopo la bocciatura da parte degli operai del rinnovo contrattuale proposto da Marchionne e sindacato. L’ultimo sciopero alla Chrysler fu nel 2007, alla vigilia del crollo, ma durò circa 7 ore[2].
All’epoca della prima grande crisi era presidente Ronald Reagan e all’epoca la Chrysler, strapazzata dalla recessione, dovette essere salvata dall’intervento del governo federale. La crisi quasi fatale del terzo costruttore americano rese celebre Lee Iacocca, il manager italoamericano che negoziò il pacchetto di crediti che avevano «salvato» l’azienda. Ma la recessione del 1980 (seguita dallo sbarco in America di costruttori giapponesi e tedeschi) costò cara al sindacato, che (anche in quell’occasione) accettò riduzioni dei salari e licenziamenti che alla fine hanno portato alla cancellazione di quasi 50mila posti di lavoro.
Trent’anni anni dopo, durante il crack finanziario innescato dai subprime, la più piccole delle «sorelle» di Detroit ha dovuto affrontare una crisi identica, con il salvataggio dell’amministrazione Obama. Un salvataggio di cui ha beneficiato un altro dirigente italoamericano, Sergio Marchionne.
Ancora una volta, il salvataggio della Chrysler è avvenuto in larga parte sulla pelle dei lavoratori. Come condizione del finanziamento pubblico, infatti, l’Uaw ha accettato il congelamento degli stipendi, la divisione di due fasce salariali dei lavoratori molto diseguali tra loro e una moratoria di cinque anni sugli scioperi scaduta solo ora.
Uscito dalla seconda bancarotta in 30 anni, il colosso dell’auto americano è diventato intanto un’effettiva multinazionale dopo il matrimonio con la casa torinese. Fino a pochi giorni fa né il sindacato né Marchionne si aspettavano l’insurrezione della base dopo l’ennesima ritirata sindacale. Gli operai hanno detto no al 65%[3] votando in massa. È la prima volta in 30 anni che accade una «rivolta» simile.
Il costo di uno sciopero in tutti gli stabilimenti Usa potrebbe costare alla Fca 40 milioni di dollari di utili e 1 miliardo di ricavi a settimana[4], influenzando anche gli stabilimenti canadesi.
Lo scontro avviene sullo sfondo di una deindustrializzazione liberista che dagli anni ‘80 ha visto anche negli Usa una vera emorragia dell’occupazione, accelerata dopo che il trattato di libero commercio interamericano Nafta siglato nel 1994 ha esportato, soprattutto in Messico, decine di migliaia di posti di lavoro del settore automobilistico e dell’indotto dei ricambi.
In contemporanea, i salari hanno subito una decrescita constante che l’attuale «ripresa» non ha fatto nulla per arrestare. Di pari passo, anche i diritti dei lavoratori sono andati riducendosi, fino all’accordo sindacale su retribuzioni a due marce per cui i nuovi assunti lavorano con una paga oraria che è quasi la metà di quella dei colleghi con maggiore anzianità. Alla Fca i giovani operai percepiscono una paga di 15$ l’ora a fronte di salari fino a 28,33$ l’ora per i «veterani».Il contratto prevedeva aumenti progressivi nei nuovi salari ma ad oggi, a fronte di quattro anni di boom che hanno visto i costruttori raggiungere i 17 milioni di vetture prodotte annualmente e utili complessivi di 73 miliardi di dollari (3,2 miliardi solo quest’anno per Fiat Chrysler), non c’è stato un riscontro corrispettivo nelle buste paga.
Citando la «ciclicità imprevedibile» del mercato automobilistico, l’azienda di Marchionne — come Ford e Gm — ha voluto prolungare il copione diffuso di una ripresa che moltiplica i profitti ma lascia indietro dipendenti, operai, stipendi: il lavoro.
La vertenza avviene perdipiù sullo sfondo di un nuovo impulso alla delocalizzazione globale, contenuto nei nuovi trattati sul commercio spinti dall’amministrazione Obama.
Il Tpp [5]firmato proprio questa settimana con le nazioni asiatiche (meno la Cina), se ratificato dal congresso, avrà il prevedibile effetto di mettere sotto nuova pressione la forza lavoro americana.
È nel contesto di una ritirata lunga 30 anni, senza prospettive di fine, che gli operai Fiat Chrysler hanno scelto di dire basta. Una riscoperta della «memoria storica» dello sciopero[6] che ha come cassa di risonanza politica l’incipiente campagna elettorale.
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