Lo scandalo Volkswagen è destinato ad avere ripercussioni gravissime per l’azienda e conseguenze per il prestigio e l’influenza della Germania. Tuttavia non va considerato solo un “brutto affare” tedesco. Il caso presenta alcuni aspetti trascurati che ci riguardano direttamente e dovrebbero suscitare interrogativi e incrinare certezze.
Nella Volkswagen lo Stato (della Bassa Sassonia) è azionista con il 20 per cento e con una golden share che gli concede di influire sul controllo. Qual è la vera ragione per la quale uno Stato vuole essere azionista di controllo di una azienda che opera sul mercato in concorrenza al privato?
Me lo sono recentemente domandato su queste colonne a proposito delle numerose imprese italiane a partecipazione pubblica.
La risposta “alta” è che l’azionista pubblico garantirebbe una migliore governance aziendale, la possibilità di perseguire progetti pluriennali senza dover rincorrere utili di breve periodo, e il rispetto delle regole nell’interesse di tutti, e non dei soli azionisti e manager.
Il caso Volkswagen è la dimostrazione dell’esatto contrario: lo Stato azionista spesso si comporta peggio dei privati.
Come si è verificato in tante nostre partecipate pubbliche. Ora ne abbiamo una conferma dall’azienda modello della “cultura d’impresa” tedesca. La truffa mondiale della Volkswagen non dovrebbe essere un fulmine a ciel sereno: pochi anni fa, è stata al centro di uno dei più gravi scandali finanziari in Europa. Segno di una cultura d’impresa inquinata e di una governance a dir poco carente.
Nel 2006 la Porsche, altra azienda simbolo tedesca, dell’omonima famiglia, comunica di avere il 30 per cento della molto più grande Volkswagen, alla cui guida c’è Ferdinand Piech, nipote del fondatore della Porsche.
Una partecipazione incomprensibile, vista l’enorme sproporzione dimensionale.
Due anni dopo, la Porsche annuncia di aver rastrellato segretamente il 43 per cento e un altro 31 per cento attraverso derivati. La sorpresa fa esplodere la Borsa: in due giorni il titolo guadagna il 500 per cento! Una scalata incomprensibile, data l’esistenza della golden share della Bassa Sassonia (senza che alcun accordo venga comunicato), e finanziata con ben 13 miliardi di debiti, che si pensa di rimborsare attingendo alla cassa della Volkswagen, in puro stile Gordon Gekko. Poi arriva la crisi finanziaria, le banche chiedono alla Porsche di rientrare e l’azienda rischia il default.
Chi la salva? La Volkswagen! Inizialmente con un prestito tenuto segreto per mesi, poi con un investimento in Porsche, per rimborsare i suoi debiti, e acquisirne il controllo; ma lasciando alla famiglia Porsche circa il 30% per cento del capitale.
Durante l’intera vicenda, Ferdinand Piech, indiscusso “re” di Volkswagen(fino a questo aprile), siede nei Consigli di amministrazione di entrambe le società, alla faccia del più clamoroso conflitto di interesse.
Poi unisce le sue azioni a quelle dei Porsche in una holding acquisendo il 51 per cento della Volkswagen, che ora ingloba Porsche. L’allora capo di Porsche se ne esce con 77 milioni di buonuscita; quello odierno di Volkswagen con 33. Il tutto sotto gli occhi vigili dello Stato e dei sindacati grazie al famoso modello di cogestione dell’economia sociale di mercato che tanti proseliti fa in Italia.
L’enormità del caso dovrebbe far riflettere sul ruolo dello Stato azionista, che nulla ha a che fare con la difesa degli interessi nazionali o le politiche per lo sviluppo e il sostegno alle imprese.
La seconda lezione che il caso Volkswagen dovrebbe impartirci riguarda la definizione degli standard in Europa.
La tendenza è di attribuire alla Commissione Europea e agli Stati Membri, la definizione o promozione degli standard per l’industria, nella convinzione che il coordinamento pubblico sia più efficiente del caos “distruttivo” della concorrenza tra standard che prevale negli Usa.
Il motore diesel, nonostante fosse notoriamente più inquinante, specie per le prestazioni elevate, è diventato in pochi anno lo standard europeo (oltre il 50 per cento delle vettura circolanti) grazie a un vantaggio di prezzo del diesel per via di un minor carico fiscale; un bollo auto che non è correlato al reale inquinamento; e certificazioni ambientali fasulle, che molte analisi e centri da tempi segnalavano, ma che nessuna autorità pubblica di nessun Paese europeo ha mai preso seriamente in considerazione.
Perché l’interesse dell’industria in Europa ha prevalso su quello dei cittadini. Come nel più arrembante capitalismo di mercato. Ma con un difetto in più: lo standard unico deciso dal centro facilita inizialmente le imprese, ma scoraggia poi l’innovazione creativa che deriva dalla concorrenza per ricercare standard alternativi che possano dare un vantaggio competitivo.
Così è la giapponese Toyota che ha inventato il motore ibrido, mentre la Tesla negli USA, con le sue auto sportive elettriche, vale in borsa 34 miliardi (contro i 22 di FCA). In Europa sarebbe stato impossibile.
Un errore già fatto con il GSM: a differenza di Giappone e Usa, l’Europa scelse uno standard unico per la telefonia mobile, il GSM, che inizialmente permise all’industria del nostro continente di prevalere; ma grazie alla concorrenza creativa, in pochi anni americani e asiatici ci hanno raggiunto e superato.
Un ultimo punto riguarda la protezione dei consumatori. In Europa domina l’idea che debba farsene carico lo Stato, con una imponente struttura di regole, autorizzazioni e prescrizioni richieste da una qualche Autorità per poter avviare un’attività o commercializzare nuovi prodotti. La verifica a posteriori del rispetto delle regole, e le eventuali sanzioni, sono compito delle stesse Autorità di regolamentazione ( e del potere giudiziario in caso di illeciti).
Negli Usa si attribuisce meno peso alla regolamentazione preventiva, a favore dell’iniziativa economica, e si punta su pesanti sanzioni, specialmente economiche, a posteriori. Inoltre la tutela dei diritti è anche nelle mani dei consumatori, che dispongono degli strumenti giuridici per farsi valere (per esempio, la class action).
In poche parole, al vaglio preventivo dei burocrati e all’intervento delle procure, si preferisce il randello nodoso della sanzione che può portare al dissesto economico.
Un deterrente che funziona ma che in Italia è osteggiato perché potrebbe danneggiare la stabilità dell’impresa: gli interessi di soci, creditori e dipendenti da noi prevalgono sempre su quelli dei consumatori.
Ai tanti fautori del modello europeo, vale la pena ricordare che la truffa della Volkswagen è stata scoperta grazie all’ International Council on Clean Transportation: un ente privato, finanziato da privati.