TOVARNIK (CROAZIA ). Zebran alza le mani e grida verso la torretta di confine: «Siamo profughi, vi prego: fateci passare». Si volta e con il braccio indica una folla di fantasmi che arranca sulla stradina sterrata. Le guardie di frontiera croate sono già in allerta. L’eco della battaglia di Horgoz, lungo il filo spinato che blinda da due settimane il fronte sud dell’Ungheria, è arrivato fino a qui. Scontri furibondi: lanci di pietre, lacrimogeni. L’ordine è liberatorio: «Venite, passate pure». La folla alza le braccia al cielo, sorride, applaude. Piange.
L’esodo continua. Inarrestabile. Nessuno vuole restare impantanato nel cuore dell’Europa centrale. Tutti puntano a nord, verso la Germania e poi la Svezia, la Finlandia, magari la Norvegia. Cambia la rotta. Come un gregge allo sbando, migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini, cercano nuove strade che superino il blocco dell’Ungheria. Il muro di filo spinato resta insuperabile. Meglio tentare altre strade. La voce gira in fretta. C’è un web virtuale, fatto di messaggi spediti dai telefonini e rimbalzato di bocca in bocca, che indica i nuovi percorsi. Basta Ungheria: tutti hanno capito che la frontiera con la Serbia resterà chiusa a lungo. Il premier Viktor Orbán lo ha detto chiaramente: un anno senza libero accesso. In barba alla Ue e a Schengen. Allora tutti verso la Croazia, virando verso sud.
Qualcuno si è messo in cammino già dopo il tramonto. Con il buio è più facile. Si taglia per i boschi e i prati. Con guide improvvisate che si offrono volontarie. Dietro compenso. Come i taxi, le macchine dei privati. Tutto è business nel mondo globalizzato. Ma la marcia è più difficile del previsto. Si cammina e si prendono passaggi. Con trattative rapide, senza possibilità di variare le tariffe. La nuova porta d’ingresso è qui, a Tovarnik, nell’est della Croazia. Molto verde e una radura gialla e marrone punteggiata da macchie di boschi. Immagini che arrivano da lontano. Che ricordano altri drammi e altro sangue. Tra Sid in Serbia e questo posto di frontiera si sono consumate battaglie furibonde. Gli echi delle sparatorie, dei bombardamenti, tornano dal passato come un incubo. La terribile e tragica guerra (1991-1995) che lacerò la ex Jugoslavia a colpi di massacri e pulizie etniche si riaffaccia ora con lo spettro delle mine: 51 mila disseminate lungo il confine lungo il fiume Drava, a nord di Osijek e a 15 chilometri a sud-ovest di Vinkovci.
Questa folla logorata da un viaggio che dura ormai da tre mesi ma decisa a tutto, anche alla morte, per raggiungere il nuovo Eldorado, ignora il pericolo che punteggia un territorio di almeno 60 chilometri quadrati. Solo i volontari serbi e quelli croati che si salutano lungo il confine sono in grado di avvertirli. Un gruppo di 150 uomini e donne appena arrivato ascolta il nuovo messaggio con aria stravolta e interdetta. Questi siriani e afgani, ma anche alcuni maliani ed eritrei che si sono aggiunti al fiume umano, sono ormai assuefatti al pericolo. Negli ultimi quattro anni hanno vissuto sotto le bombe e i tiri dei cecchini; tra le esplosioni delle autobombe e i barili carichi di tritolo lanciati sulle piazze dagli elicotteri. La morte è una costante. La paura è stampata sui loro visi, sui corpi segnati, sulle gambe e le braccia piene di ferite. «Faremo attenzione », dicono alcuni uomini che guidano il corteo. «Diteci dove sono le bombe». Nessuno ha delle mappe. I volontari croati chiamano il Centro azione sulle mine (Hcr) per ottenere informazioni più dettagliate. Verranno spedite squadre di sminatori. Ma la marcia non può continuare. Il rischio è troppo alto: qualcuno potrebbe saltare su una mina. L’Hcr fornisce una mappa che viene scaricata su una applicazione. Gli smartphone dei croati diventano le torce di una strada senza indicazioni: macchie rosse si allargano sulla carta scaricata e formano una ragnatela impressionante. Indicano i luoghi dove sono state disseminate le bombe. I punti sono precisi. Ma c’è sempre il rischio che gli ordigni, con il tempo, sianoscivolati per le piogge e il fango. “Medici senza frontiere” chiede l’apertura di un corridoio umanitario sicuro. Non si può scherzare sulla pelle di gente abbandonata a se stessa. Il premier croato Zoran Milanovic ha le idee molto chiare: «La Croazia è pronta a ricevere la persone che chiedono di entrare nel nostro paese e di aiutarle ad andare dove chiedono», dichiara in Parlamento. La presidente Kolinda Grabar Kitarovic è allarmata dal fiume di persone già ammassate nelle retrovie della Macedonia. «Ci occuperemo», annuncia, «dei problemi di sicurezza. Ma non dimenticheremo il fatto che questi uomini e queste donne sono prima di tutto degli esseri umani». Per venerdì e martedì prossimi è stato convocato il Consiglio nazionale di sicurezza.
Il governo croato chiede però un intervento dell’Onu. Il paese non può affrontare da solo un esodo che travolgerà i suoi confini e le sue arterie di collegamento. È stata chiesta la convocazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. «Perché», spiega Milanovic, «questa è una sfida mondiale». Lo scontro si annuncia anche con la Slovenia che si è allineata subito con l’Ungheria. Le frontiere saranno chiuse. Passerà solo chi ha veramente diritto. E per diritto si intende solo i rifugiati. Un nuovo blocco, forse un altro muro.
I primi che arrivano prima del buio scuotono la testa. Ripetono, ossessivi: «Passeremo, arriveremo dove vogliamo andare ». Alzano la mano verso il cielo. «Lui ci proteggerà. Ha già deciso per noi».