Tra i dannati nella stazione di Budapest sotto i lacrimogeni

by redazione | 2 Settembre 2015 8:52

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BUDAPEST. L’ODORE di pochi lacrimogeni aleggia appena nell’aria qui a Bàross Tèr, la splendida piazza che ti evoca l’Austria-Ungheria di Robert Musil e Stefan Zweig. Adesso Keleti Palyaudvàr, la monumentale stazione est, è vuotata dei migranti — “clandestini” o négerek li chiamano qui — pazienza se di tasca loro avevano già in tasca il biglietto per la Germania terra promessa, pagato 100 euro a testa e incassato dalle ferrovie ungheresi, una fortuna. «Germania, Germania, viva Angela Merkel », gridano i “dannati della Terra”.
Il blitz è scattato nel mattino: centinaia di agenti della Rendorség, la polizia statale, li hanno buttati tutti fuori. Poche ore dopo, parlava un portavoce del governo: «Non ci pieghiamo ai diktat dei governi di sinistra come quello tedesco». Non importa che Angela Merkel non sia di sinistra, né che abbia appena dichiarato guerra agli xenofobi. Budapest sfida l’Europa di “Angie”, lo vedi in strada, costruendo l’Europa dei nuovi Muri.
Il blitz della Rendorség è scattato il mattino presto, mi dicono gli ufficiali della polizia, gentilissimi e freddi, alla stazione est il cui frontale con la Vittoria alata evoca i sogni passati degli Imperi multiculturali, «quelli in fondo migliori dell’ossessione odierna degli Stati nazionali », mi sussurra Agnès Heller accompagnandomi. Azione decisa, ma senza violenza troppo brutale: tutti fuori da Keleti Palyaudvàr, spinti con durezza. «Adesso saliranno sui treni soli i viaggiatori europei », annunciano più tardi gli altoparlanti».
«Quella donna al potere ci può salvare, qui sono cattivi», mi dice Mounira, esule siriana, appena buttata fuori dalla stazione. «Per carità, i poliziotti di qui sono stati cortesi, ma noi il biglietto per la Germania lo avevamo in tasca, che diritto hanno di non farci salire sui treni? ». Mahmoud, il marito, consola i figli, li porta a giocare sullo scivolo del giardino-giochi d’infanzia di fronte a Keleti Palyaudvàr, i poliziotti sorridono. «I bambini sono carini, purtroppo abbiamo ricevuto l’ordine di buttarli tutti fuori dalla stazione, anche loro», mormora un sergente della polizia.
«Merkel, Merkel, Deutschland, Deutschland!», si leva ripetuto il grido dei dannati della terra. «La promessa della cancelliera di accogliere i perse- guitati l’abbiamo in tasca, il biglietto costato anni di risparmi anche», dice Abdel, giovane single. A un passo da lui, sui bei giardini di piazza Baross — piazza-gioiello della Budapest austroungarica — e ovunque altrove nella città strapiena di migranti, ci sono solo bivacchi: famiglie, donne sole con carrozzine rotte e rovinate, gruppi di giovani, vecchi. «Ero professore ad Aleppo, la guerra civile mi ha distrutto la vita», mi confida in un ottimo francese accademico un anziano signore siriano.
A sera, qui a Baross, i migliaia di dannati della terra hanno deciso di non mollare. Sono venuti almeno in duemila, hanno organizzato una manifestazione pacifica per chiedere di partire. Slogan gridati forte, «Merkel, Merkel, Germania, Germania », e ognuno alza la mano destra che stringe il biglietto ferroviario già acquistato per arrivare nella Repubblica federale. Duemila in piazza, in faccia a loro almeno un migliaio di agenti con l’uniforme blu antisommossa e il berretto che ricorda molto da vicino quello delle truppe di Horthy, il principale alleato di Hitler nell’Operazione Barbarossa, l’attacco all’Urss.
Niente violenze o brutalità poliziesche, bisogna dirlo. Lo vedi su piazza Baross, o nei sottopassaggi della metropolitana dove i migranti si sono rifugiati a centinaia. Poliziotti calmi, si mischiano agli splendidi giovani delle Ong ungheresi che vengono là prendendosi licenze dalle lezioni universitarie, e portano pannolini, latte in polvere o giocattoli per i bimbi: «Offriamo anche assistenza legale per partire», mi dice la splendida Ildikò.
Traffico impazzito attorno all’incrocio di Baross Tér, e adesso arriva la sera. Finita la manifestazione, molti dei dannati della terra espulsi da Keleti Palyaudvàr dormiranno all’aperto. Nei giardini attorno all’enorme stazione, o altrove nel centro della capitale magiara. In una folle prova di forza il governo ha preso l’abitudine di diffamarli pur di attaccare Angela Merkel e Jean-Claude Juncker — così mi dice una fonte diplomatica Ue — però la gente del posto a volte li aiuta. Porta loro da mangiare, o giocatttoletti usati per i bambini. E persino i poliziotti in tuta blu antisommossa inviati in corsa da Orbàn a sgomberare sorridono. «Sono giovani famiglie come la mia», sussurra Istvàn, sottufficiale dei Komondor, i corpi scelti della polizia, «se arrivano qui è un’emergenza tremenda per noi, eppure vedendoli provo empatia e compassione ».
«Basta con la repressione, vogliamo partire, abbiamo pagato i biglietti con nostro sangue e i nostri ultimi risparmi», scandiscono — sopra il piano sotterraneo della metro dove ascoltavo l’agente speciale Istvàn — duemila migranti in corteo. Centinaia di poliziotti li fronteggiano, atmosfera calma ma tesa mentre tra i giardini giovani mamme velate allattano i neonati, e gruppi di ragazzi siriani adocchiano timidi le splendide ungheresi di fine estate.
In piazza Baross i giovani disperati del mondo delle guerre e i giovani in uniforme blu della Rendorség cercano di capirsi. Certo, venti auto quindici camion e cinque pullman della polizia ti dicono subito davanti agli occhi da che parte sta il rapporto di forza.
Ma la stangata viene dai piani alti del potere, contro Angela Merkel prima ancora che contro quei poveracci nei giardinetti davanti alla stazione: «L’esistenza dell’Europa cristiana è minacciata», ha gridato in Parlamento Antal Rogan, capogruppo parlamentare della Fidesz, il partito dell’autocrate Orbàn, e ha aggiunto: «Cittadini, volete forse che i vostri figli crescano in un Califfato unito europeo? Io no, spieghiamolo alla cancelliera Merkel». In piazza, la giovane Marha, studentessa fuggita da Aleppo distrutta dai Mig di Assad, lo sente in tv onlinefine e commenta: «Siamo migliaia, perseguitati, la Germania ci accetta, se loro qui ci bloccano dove dobbiamo andare?»
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