Laboratorio Sud l’ha chiamato la Cgil. Una vertenza sindacale itinerante per far diventare il Mezzogiorno un questione nazionale. Si parte oggi da Potenza con il segretario generale Susanna Camusso, ieri, peraltro, durissima contro gli ultimi decreti del Jobs act: «I controlli a distanza sono una aggressione ai diritti dei lavoratori ». Dopo la Basilicata, via via nelle altre regioni per raccogliere idee. E sta qui l’originalità della vertenza: arricchire progressivamente di nuove proposte un piano per il Sud. Nulla di predefinito se non cinque macro obiettivi: infrastrutture immateriali (università, centri di ricerca), politica industriale per il sud, mobilità, cooperazione mediterranea, cultura e valorizzazione del territorio. Un’azione corale, dunque, che punta a coinvolgere tutti i soggetti in causa, perché senza una ripresa delle regioni meridionali è difficile immaginare un recupero del Pil nazionale. È come se si fosse ribaltato lo schema: non più il Sud che viene trascinato dal Nord ma il Nord che senza la domanda meridionale rischia di restare nel guado di una stagnazione permanente. Si compone anche così il nuovo dualismo imprenditoriale tra aziende che esportano e che agganciate alla domanda globale continuano a far crescere i fatturati e quelle legate al solo mercato domestico continuano (quando riescono) solo a sopravvivere.
Il progetto (una sorta di work in progress) della Cgil è anche alternativo all’approccio del governo Renzi. Assente nei primi atti dell’esecutivo, l’attenzione al Sud è tornata dopo gli ultimi drammatici dati della Svimez di fine luglio sulla situazione economica delle regioni meridionali. Ora si attende la legge di Stabilità per capire come in concreto si realizzerà l’annunciato piano per il Mezzogiorno. Da qui a ottobre anche la Cgil presenterà le sue proposte. Intanto — osserva Gianna Fracassi, segretaria confederale di Corso d’Italia — «sono stati scippati, con l’ultima legge di Stabilità, 3,5 miliardi di euro del Piano di azione, ma è anche stato ridotto il cofinanziamento nazionale dei programmi dei fondi strutturali in Campania, Calabria e Sicilia dal 50 al 25%». «E poi l’assenza di un ministero per la Coesione la dice lunga sulla irrilevanza di questi temi per il governo».
Ma c’è un punto che accomuna governo e Cgil: la ricerca di nuove vie per affrontare la questione meridionale visto che gli ultimi decenni si sono accumulati una serie di fallimenti. Dopo la fine dell’intervento straordinario (il cui bilancio avrebbe bisogno di un ripensamento critico alla luce degli errori successivi) ci si è affidati ai contratti d’area e ai patti territoriali. Con risultati deludenti. Ha scritto Adriano Giannola, presidente della Svimez, nel suo recente “Sud d’Italia. Una risorsa per la ripresa”: «Il lascito della nuova programmazione è di aver instradato sul binario dei Fondi europei l’esternalizzazione del problema Mezzogiorno, sempre meno oggetto delle cure nazionali. Lo sviluppo dato in outsourcing rende ancora più estraneo il beneficiario rispetto al resto del Paese e, simmetricamente, i pessimi risultati a consuntivo alimentano l’insofferenza del Paese rispetto alla Questione che ostinatamente si ripresenta. Tutti aspetti che concorrono a rendere realistica la prospettiva della disgregazione nazionale». Che si consuma nel distacco delle aree meridionali da quelle del centro-nord. Un divario che riguarda il Pil, il livello degli investimenti, i consumi. Ma soprattutto l’occupazione con un divario tra Nord e Sud che è arrivato a 21,5 punti percentuali contro il 20,9% del 2013.