Ridisegnare le città dell’accoglienza
Quanto sta finalmente succedendo — sia pure con molte difficoltà e contraddizioni — sul fronte delle migrazioni verso l’Europa, la ancora incerta «svolta», spinge a considerare dinamiche e processi in atto non tanto come emergenze contingenti, ma quali fenomeni di fase destinati a segnare e probabilmente a trasformare strutturalmente l’organizzazione sociale e ambientale europea e occidentale. È il caso forse di assumere che l’enorme flusso di immigrazione dai sud del mondo è destinato in tutto o in parte a caratterizzare, connotare, i futuri assetti delle città e dei sistemi insediativi del Vecchio Continente, e non solo.
Tra coloro che «stanno arrivando» ci sono certamente i futuri italiani, francesi, tedeschi, spagnoli ecc., che costituiranno una componente rilevante, al pari degli altri che, con mobilità crescente, sono destinati a trascorrere periodi più o meno lunghi, ma contingenti, nella nostra penisola come in altri paesi, in attesa di destinazioni diverse, anche extraeuropee; o di possibili «ritorni a casa». Pure oggi così difficili da intravedere.
È allora il caso che si pensi alla chiusura — abbandono definitivo — delle strutture di accoglienza temporanee: le tristi sigle di questi anni, CIE, CAT, CAE, CDT, ecc.; e si assuma l’accoglienza come tema foriero di meccanismi funzionali ad una nuova domanda aggiuntiva di cittadinanza, di abitanza. Che può contribuire ad orientare i nuovi programmi di riuso e di rigenerazione urbana, quanto mai necessari; al di là dell’arrivo dei migranti (per cui in ogni caso nel breve periodo appare inutile la distinzione tra le varie tipologie di migrazione).
Va tenuto conto in questo quadro che su tale terreno, la situazione delle strutture è, almeno quantitativamente, assai meno drammatica di quanto ogni giorno ci prospetta la vulgata politica e mediatica. Anzi tale tipo di domanda aggiuntiva può fornire senso ed utilità sociale ad un’offerta esuberante da iperproduzione edilizia che, non solo nel clamoroso caso italiano, costituisce un monumento allo spreco economico e ambientale, vista l’enorme realizzazione di case (spesso vuote) e di cemento che ha contraddistinto le ultime fasi. Il vuoto o sottoutilizzato non interessa solo le città italiane o dell’Europa occidentale: per citare solo casi molto noti, i comparti deserti nelle città dell’Europa orientale (quella dei nuovi muri) assomigliano ai centri interni collinari e montani italiani; per dieci mesi all’anno la Costa del Sol, come quelle siciliane e calabresi, presenta centinaia di migliaia di case e villette vuote; in molte sub regioni del continente i centri rurali sono stati svuotati dal gigantismo della città diffusa. I dati relativi al nostro paese ci forniscono un patrimonio edilizio impressionante quanto sovrabbondante, in cui un decimo degli edifici ed un quarto degli alloggi esistenti sono vuoti o sottoutilizzati. Le dimensioni del fenomeno sono tali per cui oggi è consistente il rapporto abitanti/edificio, laddove ieri si contavano gli abitanti/alloggio e ancora prima l’abitante/stanza.
Nelle metropoli le stanze vuote di contano a centinaia di migliaia; nelle città medio-grandi a decine di migliaia. Ma anche i piccoli comuni sono segnati da palazzine e ville vuote o semiabbandonate, una circostanza che caratterizza molti centri interni. Certo va considerato che la gran parte di questo patrimonio – più dell’80% — è privato. E specie negli ultimi anni à stato costruito non per rispondere alla domanda sociale né alle dinamiche economiche del settore, ma soprattutto per realizzare le basi di meccanismi di speculazione finanziaria; ovvero per riciclare capitali illegali. La riprova è fornita dalla presenza di aree di forte disagio abitativo locale, a fronte di una domanda inevasa totale nazionale pari a poco più del 10% dell’offerta inutilizzata (circa 850 mila nuclei, per lo più monofamiliari, a fronte di circa 8 milioni di alloggi vuoti o sottoutilizzati).
Ricerche come Riutilizziamo l’Italia, condotta dal Wwf insieme a diverse università, o gli «Osservatori» della Società dei Territorialisti illustrano, oltre all’urgentissima esigenza di messa in sicurezza del territorio, quella di rigenerare e riusare la città a partire dal blocco del consumo di suolo e dal riuso dell’enorme mole di vuoto o inutilizzato; nonché dalla domanda di riqualificazione ecopaesagistica e di valorizzazione del patrimonio storico culturale presente.
Queste elaborazioni hanno colto come l’innovazione sociale –oltre che tecnologica– espressa da nuove soggettività, stia contribuendo a riqualificare i luoghi delle città a partire dalla particolarità delle istanze espresse in tali situazioni urbane:si pensi ai processi di riciclo e ristrutturazione «leggera» promossi da associazionismi artistici e culturali o alle stesse «occupazioni spontanee» come segnalazione di forte disagio sociale e di soluzione «diretta» dei problemi. A questi temi utili al ridisegno ecologico e socialmente innovativo della città — che ritessono tessuti urbani in sparizione– si può aggiungere oggi l’accoglienza; da assumere anche come nuova ricchezza rappresentata dalle culture espresse dalle molte, diverse, soggettività provenienti dall’esterno.
Si impone però per questo l’esigenza di politiche urbane differenti dal passato e autenticamente innovative; che le istituzioni attuali, incrostate e spesso dominate da interessi speculativi, che aggravano sovente una sistematica riluttanza all’innovazione, difficilmente possono proporre.
Questo tipo di azione può muovere dal censimento del patrimonio vuoto o inutilizzato di ciascun comune: un dato di cui spesso l’amministrazione è ben consapevole o che può facilmente e rapidamente acquisire. Da questo e dalle più evidenti emergenze di riqualificazione urbanistica può muovere un efficace e utile «Piano casa sociale», che integra appunto rigenerazione urbana e accoglienza. Anzi ne è connotato. È necessaria l’azione dal basso, di comitati e associazioni, perché si diffondano i pochi esempi virtuosi esistenti (vedi il comune di Riace in Calabria), di capacità di acquisizione del patrimonio vuoto anche privato, e del suo riutilizzo anche con opzioni di «comodato d’uso di pubblica utilità», perché nella nuova qualità ecologica e civile delle nostre città, oltre alla risposta a bisogni già emersi, non può mancare la ricerca di soddisfacimento delle domande dei «nuovi abitanti».
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