Quel treno dell’89

Quel treno dell’89

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Sta­zione di Keleti a Buda­pest. Un inferno in terra, dove al solo annun­cio di un treno in par­tenza i rifu­giati con le loro fami­glie assal­tano i vagoni; poi il treno non parte è comin­ciano i litigi, gli scon­tri fisici tra chi vuole por­tare il figlio pic­colo a respi­rare fuori e chi vuole comun­que il posto assi­cu­rato per la sal­vezza in Germania.

La poli­zia tran­quilla guarda e l’altoparlante spiega, ma in unghe­rese, che quel treno non par­tirà e comun­que non è diretto in Ger­ma­nia. Nel bel mezzo del caos disu­mano su cui ali­tano le fre­sche parole del pre­mier unghe­rese Orbán: «L’invasione dei rifu­giati mette in discus­sione le radici cri­stiane d’Europa», dall’altra parte dei binari è fermo un altro treno, arri­vato in mat­ti­nata, dai fine­strini oscu­rati, bello lucido, nero ama­ranto. Sulla testa del loco­mo­tore un grande logo: «Europa No Bor­der», la data è quella del 25esimo dell’89 (cele­brato in pompa magna nel 2014) e sulle cor­rozze è dise­gnato, in rosso e nero, un filo spi­nato spez­zato. I rifu­giati non capi­scono dell’89 ma pen­sano sia il treno che li por­terà in Germania.

Non è così: è uno dei treni che dovrebbe por­tare i siriani che non pas­se­ranno e tutti gli altri «scarti», in un campo «d’accoglienza» (di con­cen­tra­mento) all’interno dell’Ungheria. E per non finire in una nuova reclu­sione nel campo di Bic­ske, ieri i rifu­giati si sono scon­trati con la poli­zia che voleva obbli­garli a scen­dere per internarli.

Che resta dun­que delle spe­ranze legate alla svolta dell’89. Dell’annunciata fine dei con­fini, di una nuova par­te­ci­pa­zione alla poli­tica, dell’inveramento della demo­cra­zia. Il dis­senso e le «tavole» dell’allora oppo­si­zione si sono tra­sfor­mate, nell’esperienza magiara, in un regime d’estrema destra che ha avuto anche il soste­gno dei neo­na­zi­sti che si ali­men­tano della xeno­fo­bia dila­gante che, fra l’altro, non ricorda quando nel 1956 fug­gi­vano 200mila pro­fu­ghi dal disa­stro della rivolta unghe­rese. Intanto la cat­to­li­cis­sima e «soli­dale» Polo­nia insorge anche con­tro la mise­ria delle quote pro­po­sta dall’Ue, tanto da met­tere in forse il ver­tice euro­peo del 14.

E Praga final­mente non è più «sola», ma in buona com­pa­gnia delle capi­tali occi­den­tali, a respin­gere i pro­fu­ghi e a met­terci uno zelo kaf­kiano nel mar­chiarli con i numeri alla fron­tiera. Senza memo­ria della scel­le­rata pra­tica nazi­sta su ebrei, rom e diversi pro­prio nel cuore dell’est euro­peo. E pen­sare che solo la mar­cia di migliaia di chi­lo­me­tri dei rifu­giati che hanno attra­ver­sato decine di nuovi con­fini, ha resti­tuito invece atten­zione e dignità all’est euro­peo, a par­tire dai dimen­ti­cati Balcani.

In que­sti giorni di cru­deltà per migliaia di dispe­rati un fuga da guerre e fame, si svela sotto i nostri occhi l’avvento «epo­cale» dell’89. Ora tutti quei paesi sono «demo­cra­ti­ca­mente» nella Nato e da 11 anni par­te­ci­pano a tutte le guerre che hanno deva­stato il Medio Oriente. Per­ché sor­pren­dersi allora se lo stesso treno che portò donne e uomini dell’ex Ger­ma­nia Est in Unghe­ria festosi per la caduta del Muro di Ber­lino che si annun­ciava, torni utile oggi per eri­gere nuovi quanto cri­mi­nali muri? Men­tre c’interroghiamo se il para­dosso sia voluto o sia un «caso», una cosa è certa: il treno dell’89 ha fatto mar­cia indietro.



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