NOI CHE non viviamo in Europa guardiamo le incredibili immagini della stazione Keleti a Budapest, il corpo di un bambino abbandonato sulla battigia di una spiaggia turca, le famiglie siriane disperate che mettono a rischio la vita per viaggiare di notte fino alle isole greche: e continuiamo a sentirci dire che è un problema europeo. La guerra civile in Siria ha creato più di 4 milioni di profughi.
GLI STATI Uniti ne hanno accolti circa millecinquecento. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono in guerra con l’Is in Siria, e questo è un bene: ma non abbiamo nessun obbligo verso i rifugiati che fuggono dai combattimenti? Non possiamo aiutare le persone che non ce la fanno più ad aspettare che arrivi la pace?
Non è giusto che gli Stati Uniti continuino a fingere che la catastrofe dei profughi sia un problema europeo. Guardiamo i Paesi che si fanno vanto di essere rifugi sicuri,. Il Canada, il mio Paese di origine? Circa 5mila rifugiati. L’Australia? Non più di 2.200. Il Brasile? Meno di 2.000 (fino a maggio). Ma i peggiori di tutti sono i petro-Stati. Stando ad Amnesty, sapete quanti profughi siriani hanno accolto l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo? Zero. Molti di questi Paesi da anni spediscono armi in Siria, e che cosa hanno fatto per dare una nuova casa ai 4 milioni di persone che cercano di fuggire? Nulla.
Il peso della crisi è ricaduto in larghissima parte su turchi, egiziani, giordani, iracheni e libanesi. Gli appelli alla raccolta fondi dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati non hanno raggiunto gli obiettivi fissati. Il degrado nei campi profughi è arrivato a livelli intollerabili. Ora i rifugiati hanno deciso, in massa, che se la comunità internazionale non li aiuta, loro non intendono più aspettare. Stanno venendo da noi. E ci stupiamo?
Dare la colpa agli europei è un alibi, e il resto delle scuse che accampiamo fa vomitare. Una leadership politica extraeuropea potrebbe rovesciare la paralisi e le recriminazioni reciproche fra gli Stati dell’Unione. Il sistema di registrazione dei profughi dell’Onu non riesce più a far fronte all’emergenza. La soluzione ovvia è che il Canada, l’Australia, gli Stati Uniti, il Brasile e altri Paesi annuncino di essere disposti a inviare squadre di funzionari a Budapest, ad Atene e negli altri principali punti di ingresso per registrare i profughi ed esaminare le richieste di asilo.
I vari Paesi fisseranno i loro obiettivi, ma per gli Stati Uniti e il Canada, per fare un esempio, un minimo di 25mila profughi dalla Siria è un buon punto di partenza. Chiese, moschee, associazioni di quartiere e famiglie potrebbero accettare di sostenere e accogliere i rifugiati. Quasi tutti i Paesi sovraccarichi — Ungheria, Grecia, Turchia, Italia — accetterebbero in un battibaleno.
Se questi Stati daranno l’esempio, altri Paesi — compresi quegli spregevoli autocrati del Golfo — per la vergogna potrebbero sentirsi in dovere di fare la loro parte. E allora perché i nostri leader — il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il primo ministro canadese Stephen Harper, il primo ministro australiano Tony Abbott e la presidente brasiliana Dilma Rousseff — fanno così poco? Perché temono che accogliere i profughi possa innescare un esodo ancora più grande, e non sanno se i loro team sarebbero in grado di gestire il caos che ne deriverebbe. Metodi di gestione severi ed efficienti (come quote chiare per i rifugiati siriani e la semplificazione delle procedure) potrebbero risolvere questi problemi. Ma la principale ragione per cui i leader non agiscono è perché nessuno, in patria, gli mette pressione addosso. Ora, grazie alle fotografie raccapriccianti che circolano, la speranza è che la pressione aumenti. Siamo di fronte a un movimento di profughi di proporzioni realmente bibliche, e richiede una risposta globale. Se i Governi non aiuteranno i profughi a fuggire dalla Siria, lo faranno i contrabbandieri e i trafficanti di esseri umani, e il bilancio di vite umane perdute crescerà ancora. Se gli europei sapranno che i loro amici democratici sono pronti a farsi carico della parte che gli spetta, diventerà più semplice per loro fare altrettanto.
In altre epoche, abbiamo dimostrato di saper essere all’altezza della sfida. Il mio Paese, il Canada, alla fine del 1956 inviò a Vienna un ministro del Governo per supportare un centro che accogliesse le domande di asilo di centinaia di ungheresi e organizzasse il loro trasferimento in Canada, dopo che i sovietici avevano schiacciato la rivolta. Gli ungheresi sembrano aver dimenticato che un tempo anche loro erano profughi. Alla fine degli anni 70 e all’inizio degli anni 80, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti accolsero centinaia di migliaia di persone dal Vietnam. E che cittadini straordinari sono stati questi vietnamiti e questi ungheresi. I vietnamiti e gli ungheresi scappavano dal comunismo. Cos’è che impedisce di mostrare la stessa solidarietà verso i siriani? Ad Aleppo il regime gli ha scaricato sopra i barili-bomba, le varie milizie jihadiste li hanno torturati, sequestrati, massacrati. Hanno vissuto nei campi profughi per anni, aspettando che quella crudele finzione della «comunità internazionale» venisse in loro aiuto. Ora che si sono messi in strada, in mare, in treno, tutto quello cui i nostri leader politici riescono a pensare sono muri, filo spinato e più polizia. Che cosa devono pensare i siriani accampati alla stazione ferroviaria di Budapest di tutti nostri belli discorsi su diritti umani e protezione dei rifugiati? Se ancora una volta non riusciremo a dimostrare che crediamo in quello che diciamo, finiremo per creare una generazione con l’odio nel cuore. E allora, se la compassione non basterà, forse basteranno la prudenza e la paura. Che Dio ci aiuti, se questi siriani non ci perdoneranno la nostra indifferenza.
© The New York Times 2015 Traduzione di Fabio Galimberti