Osservavo una banda di ragazzini su una spiaggia in Grecia e ho pensato se ti svegli una mattina e non c’è più nessuno, che fai? Dove vai a vivere?
Quell’estate ero partito insieme al mio amico Antonio per Creta, dove ci aspettava Anteos Chrysostomidis, il mio editore greco. Avevamo deciso di fare il giro dell’isola in macchina. Nessuno di noi era di buon umore. Ognuno per ragioni sue. Anteos, forse perché era il padrone di casa, mentre guidava cercava di intrattenerci raccontando di quando era studente a Perugia e della sua amicizia con Tabucchi.
Il paesaggio si srotolava oltre il parabrezza senza impressionarci, l’unica cosa che attirava il nostro sguardo erano i brutti palazzi e le villette di cemento. Le rovine micenee non ci emozionavano, le spiagge nemmeno. Ci risvegliavamo solo verso le sette di sera, quando ci fermavamo, bevevamo una birra e cercavamo un ristorante sul mare dove mangiare la frittura di calamari e la taramosalata. Insomma, una di quelle vacanze destinate a liquefarsi nella memoria senza lasciare scorie.
Un giorno siamo scesi per una scarpata fino a una lingua di sabbia che divideva il mare dal costone scuro punteggiato dalla macchia mediterranea.
Per qualche ragione che ora non ricordo mi sono trovato solo, sotto un pino striminzito, con un libro in mano e le cicale nelle orecchie. A un tratto ho visto passare dei bambini sul bagnasciuga. Era una banda eterogenea, tra i sei e gli undici anni. Si dirigevano verso degli scogli piatti che emergevano a pochi metri dalla riva. Avanzavano con un passo cauto, da anziani, discutendo in modo pacato, con i piedi nella ghiaia. A un certo punto uno dei più grandi si è fermato e ha dato a tutti un bacio sulla spalla. Forse era una penitenza, forse un patto di fratellanza. Avevano qualcosa di adulto, quei bambini, qualcosa di serio nel modo in cui stavano insieme senza litigi da mocciosi.
Mi accorsi che li osservavo come un etologo osserva un branco di giovani lupi e mi domandai che avrebbero fatto se si fossero trovati da soli. Per soli intendo in un mondo dove gli adulti, per qualche ragione misteriosa, sono scomparsi. Un mondo sterile perché incapace di riprodursi. Un mondo in cui la vita umana è ridotta all’infanzia e termina prima dell’adolescenza.
Io di solito capisco se un’idea è buona quando produce in me delle domande, e se le risposte che mi do producono a loro volta altre domande. Quell’ipotesi di domande ne aveva generate una cascata. Sopravvivrebbero? Si organizzerebbero? Sarebbero capaci di utilizzare oggetti non pensati per loro? Regredirebbero allo stadio animale oppure avrebbero una maturità precoce? Creerebbero una religione? I più grandi si prenderebbero cura dei più piccoli? Insegnerebbero loro a parlare e magari a leggere? Era un’ipotesi un po’ assurda, come lo sono spesso quelle alla base delle mie storie. Seguirla, sbrogliarla, farla germogliare come lenticchie sul cotone bagnato cominciò a occuparmi la mente. Gli orfani avrebbero coltivato? Cacciato? No, forse, come raccoglitori, si sarebbero nutriti di ciò che restava. Avrebbero razziato i centri commerciali e le case in cerca di scatolette. Chissà se nella memoria di questi ragazzini, almeno dei più grandi, gli adulti sarebbero diventati dèi egoisti che hanno abbandonato i propri figli. A loro sarebbero stati dedicati culti e sacrifici rituali?
I mammiferi, in particolare i carnivori, dipendono a lungo dai genitori. I cuccioli di lupo vivono con il branco e le volpi si occupano della prole fino a quando questa non comincia ad avvertire pulsioni sessuali. Ma negli esseri umani il momento dell’indipendenza arriva ancora più tardi. Ormai i genitori si prendono cura dei figli sin oltre le soglie dell’età adulta. Questo, nel mondo che mi ero immaginato, non sarebbe stato possibile.
Negli anni successivi la storia ha continuato a lavorare in sottofondo, quasi un giochino che tiravo fuori quando mi annoiavo. Ero in treno o in attesa dal dentista e mi chiedevo se i miei ragazzini sarebbero diventati alcolisti, se sarebbero stati in grado di guidare.
Qualcosa del genere mi succedeva anche da bambino. L’ipotesi di rimanere solo al mondo mi affascinava. Ti svegli una mattina e non c’è più nessuno. Che fai? Dove vai a vivere? Crescendo ho scoperto che tanti scrittori sono partiti da un’ipotesi simile per scrivere dei romanzi, di cui alcuni eccezionali.
Il problema era che il mio mondo di orfani offriva infinite possibilità narrative, ma mancava di concretezza. Mi serviva un personaggio capace di renderlo reale agendo come protagonista di una parabola singola. In pratica avevo l’acquario, le piante, la sabbia, ma non il pesce.
Poi è arrivata Anna. Perché lei? Perché aveva una missione. Salvarsi e salvare il fratellino. Come avrebbe fatto? Immaginando un futuro a dispetto di tutto, rifiutando di accettare le semplici leggi della sopravvivenza, e soprattutto coltivando la memoria. Dove avrebbe vissuto? In un’isola, la Sicilia. Chi l’avrebbe aiutata? Un cane. I cani vivono più o meno quattordici anni, quelli che io concedevo a lei. Ciò che volevo capire è se è vero che non conta quanto la vita è lunga, ma come la si vive. Anna questo poteva insegnarmelo.