Lo scontro è però ben più serio di una disputa diplomatica. Giovedì la Cina invierà al mondo il segnale inequivocabile della sua crescente potenza militare globale, costruita all’ombra di trent’anni di boom economico e con una corsa al riarmo finanziata da un budget record. Snobbare la parata di Mosca è costato relativamente poco, mentre ignorare quella di Pechino, seconda economia del pianeta nonostante la brusca frenata della crescita, costerà molto di più. L’Occidente ha scelto di correre il rischio e di offendere i nuovi “padroni del mondo” per il timore di legittimare, con la sua presenza, la retorica nazionalista della nuova leadership rossa, la ricostruzione ideologica dell’odio anti-Giappone e la rinascita della potenza militare cinese.
Alleanze politiche, interessi economici e visioni storiche spaccano così il mondo in due: da una parte il blocco Cina-Russia, con Asia, Africa e nazioni emergenti dell’America latina, dall’altra quello Usa-Europa, con Giappone, Australia e Canada, ma con notevoli eccezioni e delicati distinguo. Il caso più eclatante è la partecipazione del segretario generale dell’Onu, il sudcoreano Ban Ki-moon, presente anche a Mosca in primavera. Il governo giapponese ha espresso «forte disappunto» per la sua adesione alla «parata militarista di Xi Jinping», proprio mentre Tokyo e Pechino sono divise da conflitti territoriali e si contendono il controllo del Pacifico a colpi di riarmo. Ad essere irritate sono però anche le cancellerie occidentali, a partire dalla Casa Bianca, che invano hanno tentato di convincere il rappresentante delle Nazioni Unite a non salutare l’esercito cinese sulla stessa piazza Tienanmen che la comunità internazionale ricorda per il massacro anti-democratico del 1989 e per i dissidenti ancora in carcere. Il fronte anti- Pechino e filo-Washington, spaventato dalla prospettiva del nuovo asse di ferro Cina- Russia, vede però altre defezioni significative. Tra tutte quella della presidente sudcoreana Park Geun-hye, il 15 agosto delusa dalle scuse a metà del premier giapponese Shinzo Abe per le invasioni asiatiche del Novecento. Il blocco Ue parte dalla Commissione ed è rotto solo dal presidente cieco Milos Zeman, già a Mosca, mentre i governi hanno considerato la loro dipendenza economica: Italia, Francia e Paesi Bassi inviano il ministro degli Esteri (Paolo Gentiloni arriverà domani a Pechino), la Gran Bretagna ha optato per il profilo più basso di un “inviato speciale”, come la Germania che si è limitata all’ambasciatore, imitando Usa e Canada.
Eccetto Zeman, nessun leader occidentale ha dunque accettato l’invito della Cina, gradito quando è per concludere affari, non ancora se in gioco c’è l’influenza politica e tantomeno la visione della storia. La parata a cui Xi Jinping affida la missione di «far risorgere la patria dalle ceneri della guerra» fa esplodere infatti anche un conflitto sul passato. La propaganda di Pechino presenta da mesi i rivoluzionari di Mao come gli eroi della resistenza anti- giapponese, i comunisti come le vittime della guerra, il partito-Stato come l’erede della vittoria sul fascismo. L’obbiettivo è ricordare al mondo che Cina e Russia erano tra gli Alleati e furono decisive per fermare Hitler e l’imperatore Hirohito. Gli storici, e l’Occidente, sottolineano invece che tra il 1937 e il 1945 merito e martirio furono dei nazionalisti di Chang Kai-Shek, poi riparato a Taiwan, e che solo nel 1949 Mao Zedong vinse la sua guerra civile.
La Cina nega che l’esibizione di forza sia la risposta al riarmo giapponese, all’offensiva Usa in Asia e ai montanti contrasti con i vicini del Sudest. La parata segna però tre eloquenti primati: mai Pechino aveva celebrato il giorno della resa di Tokyo, mai aveva organizzato una sfilata in una data diversa dall’1 ottobre, vittoria della rivoluzione maoista, mai Xi Jinping aveva allestito un simile evento nei suoi primi tre anni al potere. Per l’occasione il “nuovo Mao” ha istituito il 3 settembre, sconfitta del Giappone, come “festa nazionale”, ha concesso una settimana di ferie ai cinesi e un’amnistia per milioni di detenuti non politici, riscoprendo un’usanza imperiale.
Pechino da settimane vive così tra retorica nazionalista e assedio delle forze armate. I media di Stato tempestano con vecchi film patriottici e di guerra e intervistano i discendenti dei «30 milioni di assassinati dagli invasori giapponesi». Mezzo milione di uomini, tra poliziotti, soldati e “volontari”, sono impegnati nella «prevenzione anti-terrorismo». Giovedì per due ore saranno fermati anche gli aeroporti, mentre aquile e scimmie hanno il compito di mettere in fuga gli uccelli che potrebbero disturbare le acrobazie dei jet. Dopo 70 anni Xi Jinping svela ai cinesi e al resto del pianeta il vero volto «di chi ha salvato il mondo nel Novecento e lo ha mantenuto ricco nel Duemila». Il fatto che questo volto non sia democratico, che alla riconciliazione preferisca la minaccia delle armi, spaventa la comunità internazionale: ma il problema è che oggi, silenziosamente, i primi a non essere tranquilli sono proprio i cinesi.