Qual è la lezione che il mondo deve imparare?
«Che la guerra in Siria va fermata al più presto, perché i siriani non scapperebbero dal loro paese, se non fossero costretti. Vivevamo da re nella nostra Siria. La responsabilità di quello che sta succedendo qui è di tutti quelli che sostengono la guerra. Mi auguro che qualcosa adesso cambi, soprattutto nei paesi arabi dove non ho visto alcuna indignazione per quanto mi è successo».
Lei incolpa qualcuno per la morte dei suoi cari?
«Sì, le autorità del Canada perché hanno rifiutato la mia richiesta d’asilo nonostante ci fossero 5 famiglie disposte a sostenerci economicamente. Volevo trasferirmi insieme alla mia famiglia e a quella di mio fratello, che ora è in Germania. Non avremmo nemmeno pesato sulle casse del governo canadese. Non ci hanno dato l’autorizzazione e non so perché».
Da quel rifiuto è nata l’idea di venire in Europa?
«Sì. Negli ultimi due anni ho lavorato a Istanbul, mentre i miei figli li avevo lasciati a Kobane. Lavoravo in un’industria tessile e guadagnavo 800 lire turche. Poi però quando sono cominciati i combattimenti con l’Isis a Kobane, li ho portati in Turchia. Ed è cominciata la mia tragedia. Non mi bastavano i soldi: come facevo a mantenerli quando tra bollette e affitto pagavo 500 lire? Mi sono messo a lavorare come muratore, la sera tornavo a casa e Alan e Galip mi massaggiavano le gambe e la schiena doloranti. Erano loro però ad avere bisogno di cure mediche ».
Quali cure?
«Soffrivano di una malattia congenita alla pelle, avevano bisogno di una pomata speciale da spalmare tre volte al giorno altrimenti si grattavano e la pelle gli diventava scura. Ma in Turchia a causa della lingua non riuscivo a compilare le pratiche per accedere all’assistenza sanitaria. Quindi ho pensato di andare in Germania, dove ci sono i mediatori culturali. Chissà adesso chi gliela spalma quella pomata, forse gli angeli…».
Come vi hanno trattato le autorità turche?
«Non voglio parlar male della Turchia. La presenza di profughi è altissima e non è possibile garantire condizioni buone per tutti. Ma da quanto mi hanno raccontato, in Turchia ci accolgono meglio che in Libano e in Giordania. Ecco perché volevo andare in Europa, in Germania ma anche in Svezia o in Inghilterra: volevo che i miei figli fossero trattati come persone».
Cosa si ricorda del naufragio del gommone?
«Avevo pagato agli scafisti 4mila euro. A bordo eravamo in 12, il mare era mosso e dopo pochi minuti il gommone si è rovesciato. Nell’acqua ho trovato le braccia dei miei bambini e le ho afferrate, ma mi sono accorto che erano già morti e li ho lasciati andare per provare a salvare mia moglie. Inutilmente. Ora ci sono tante persone accanto a me, ma quando sarò solo temo di crollare».
Cosa farà adesso che è tornato a Kobane?
«Non c’è luce, non c’è acqua, non ci sono le condizioni per restare. Pensavo di rimanere vicino alle tombe dei miei cari, ma qui la vita non è vita».
Proverà a tornare in Europa?
«Non ho ancora deciso. Però se parto, forse impazzisco. Ogni mattina vado sulle loro tombe, innaffio i fiori, ci parlo come se fossero vivi. Parlare con loro mi aiuta un po’».
Chiede qualcosa ai governi europei?
«Per me niente. Vorrei però che arrivassero aiuti economici alla mia gente, ai siriani che fuggono e a quelli che rimangono. Non attraverso le organizzazioni internazionali, però, perché talvolta si trattengono i soldi».
Può un muro fermare l’esodo dei profughi?
«Anche se venisse costruito un muro alto fino al cielo sui confini dell’Europa, troveranno lo stesso il modo di bucarlo. E lo faranno con i loro bambini in braccio ».
Come fa ad esserne certo?
«Quando stavo andando a prendere le salme a Bodrum, ho incontrato una famiglia di curdi che faceva l’autostop per raggiungere le spiagge dove partono i gommoni. Ho provato a convincerli a non andare, ma il capofamiglia mi ha detto: “Ormai ho deciso. O moriamo, oppure viviamo come esseri umani”. Mi ha dato questa risposta e aveva suo figlio tra le braccia».