by redazione | 25 Settembre 2015 8:49
Dialogo, solidarietà, sussidiarietà, bene comune, inclusione, accoglienza. La cura del prossimo. L’attenzione al più debole. Pace. Ambiente. Sostenibilità. Sobrietà. Costruzione di ponti. Lotta alla povertà. Abolizione della pena di morte. Stop alle armi che alimentano le guerre. Le parole del papa. Il linguaggio di Francesco. C’era da aspettarselo, un discorso così, di fronte al Congresso americano?
Certo, il papa venuto dalla “fine del mondo” ci ha abituato a misurarci con parole che la politica non sa più pronunciare – e molti dei politici che l’ascoltavano ne sono un esempio – parole che lui non si stanca di ripetere, e di connettere tra loro, quindi non slogan, eppure espresse con la semplicità diretta che disarma e sfida qualsiasi interlocutore, credente e non, una lingua resa ancora più forte dai gesti, dai comportamenti che accompagnano il suo “guidare con l’esempio”. Eppure quelle parole, dette in quel suo inglese ispanico, gentile e lento, ma chiaro e fermo, proprio perché pronunciate di fronte a quella platea, avevano un rimbombo potente. Scuotevano. Sono parole destinate a lasciare un’orma profonda, anche in virtù della “coda”, davvero eccezionale, del suo saluto dal balcone del Congresso alla grande folla della spianata sotto Capitol Hill, con la richiesta, anche questa già sentita, ma questa volta ancora più sincera e toccante, di pregare per lui.
Inutile cercare di leggere con le lenti della politica corrente il discorso del papa di fronte ai due rami del Congresso. A Washington ci si era esercitati a elucubrare sui possibili riflessi politici dell’intervento del papa nel clima di aspra contrapposizione della campagna presidenziale. Si sentiva anche discettare se il suo pensiero è di sinistra o meno: se avrebbe aperto o chiuso a certe istanze, come la libertà di interruzione della gravidanza o le unioni gay. Indubbiamente, su questi punti ha deluso certe attese. Ed è anche lecito pensare che l’abbia fatto per placare la destra. Ma a che serve tirarlo per la tonaca, da una parte o dall’altra? Francesco ha ben chiarito che, lui, detesta il bianco e il nero, teme la polarizzazione. È un male del nostro tempo, ha detto.
Com’è distante dallo show di Netanyahu, l’ultimo capo di stato a intervenire di fronte alle due camere riunite, non ha l’intento conflittuale di Bibi, venuto a Washington per esasperare conflitti e divisioni, anche tra Casa Bianca e Congresso. Francesco è l’opposto. Il papa non ha divisioni, e certo non intende usare il suo potere morale per dividere, ma per unire, non con mediazioni e con retorico ecumenismo, ma parlando alle coscienze. Può farlo perché è credibile, perché si mette lui stesso continuamente in gioco. Parla alle coscienze non moralisticamente ma individuando i punti sensibili di chi ascolta, e toccandoli con acume, anche politico.
Dove è andato a toccare, questa volta? All’essenza stessa dell’essere americani, il loro essere un popolo di immigrati, come lo è il papa, che ripete quanto ha detto nel prato della Casa Bianca a Obama, anch’egli figlio di un immigrato, un connotato ancor più importante della sua pelle. Ed è questo il filo conduttore di un discorso che si è mosso, di fronte al Congresso, secondo la tecnica della buona comunicazione, che è “moderna” ma anche quella di un bravo prete che sa che la forza del Vangelo è nelle sue parabole. È la comunicazione che procede lungo un percorso scandito da vicende esemplari. Papa Bergoglio cita quattro figure emblematiche della storia statunitense, ognuna rappresentando in sé e messe insieme l’identità più elevata dell’America. «Una nazione può essere considerata grande quando difende la libertà», come ha fatto il presidente Abraham Lincoln; «quando promuove una cultura che consenta alla gente di “sognare” pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come Martin Luther King ha cercato di fare»; quando «lotta per la giustizia e la causa degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro», frutto di una fede che «diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo» di padre Thomas Merton. Il sottotesto è evidente. L’America ha smarrito questa sua identità, eppure ha in sé la forza di recuperarla.
Quanto avviene in questi giorni in America, il clamore e l’interesse che suscita il papa, si deve alla sua forte e originale personalità, al suo messaggio. Ma non va dimenticato il piano dei nuovi rapporti di forza, dentro la società americana. Non va sottovalutato il contesto. Il papa ha parlato di fronte a una platea costituita per un terzo da deputati e senatori cattolici. Lo speaker della camera dei rappresentanti, il repubblicano John Bohner, è cattolico, come la leader dell’opposizione democratica, Nancy Pelosi. Cattolico è il vice-presidente Joe Biden, che presiede il senato. Cattolico John Kerry, il segretario di stato, numero tre dell’amministrazione, così come sei dei nove giudici della corte suprema. Insomma, il papa delle Americhe, come l’ha definito Barack Obama, parlava di fronte a un parlamento, nella sua composizione demografica e religiosa, semplicemente inimmaginabile fino a pochi anni fa, per non dire rispetto ai tempi del primo presidente cattolico, John Kennedy, che dovette chiarire, per essere eletto, di non essere «un candidato cattolico, ma un candidato del Partito democratico che è anche cattolico».
Erano ancora tempi, e parliamo di cinquant’anni fa, di un’America già entrata nell’era moderna, Kennedy lamentava che i cattolici americani erano cittadini di serie b, in un paese bianco e protestante. Non oggi, che sono settanta milioni, come ha sottolineato Barack Obama, accogliendo il papa argentino. Il vicino Messico ne ha 75 milioni. È una crescita quantitativa che cambia la “chimica” del gigante nordamericano. Ne ridefinisce la fisionomia E il ruolo. Come non vedere il disgelo con Cuba in questo contesto? E con il disgelo con Cuba si trasforma la relazione con tutta l’America latina, in un progressivo processo di unificazione di due parti dello stesso continente, le Americhe.
È un processo tutt’altro che lineare, suscettibile di ritorni indietro (basti pensare alle conseguenze dell’elezione alla Casa Bianca di un razzista come Donald Trump). Ma intanto è bene tenere ben conto che la demografia sempre più ridefinisce la politica nazionale americana ma anche la sua geopolitica.
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