Il Grande Gioco dello Zar schierarsi con Damasco per puntare all’Europa

Il Grande Gioco dello Zar schierarsi con Damasco per puntare all’Europa

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WASHINGTON. NEL “GRANDE Gioco” che Russia e America hanno ripreso a giocare, riportando l’orologio della storia indietro di trent’anni, Putin ha aggirato Obama con la mossa siriana e ha rivelato la debolezza e l’incertezza americane. L’incontro che ora frettolosamente gli Usa hanno chiesto e ottenuto fra i due presidenti a New York la prossima settimana per tamponare il colpo russo in Siria con truppe, aerei e navi, c’è il segno del panico della Casa Bianca, del dipartimento di Stato e del Pentagono di fronte alla spregiudicatezza di Mosca che si schiera dalla parte dell’ultimo dittatore sopravvissuto all’autunno dell’Unione sovietica e alle primavere arabe: Assad.
Putin ha visto il vuoto che le esitazioni e la confusione strategica aperte dalla voragine creata dal disastro iracheno hanno creato nell’amministrazione americana dopo Bush. Con la enorme latitudine politica che l’assenza di una vera opposizione parlamentare gli concede, il signore del Cremlino riesce a muovere le proprie pedine, dalla Crimea alla Ucraina orientale e oggi alla Siria senza dover rispondere a nessuno delle proprie scelte e dei costi umani o finanziari. Mentre Obama, naturalmente e istintivamente cauto, sembra condannato a quella tattica di reagire, e non di agire, che lui stesso definì paradossalmente: «Condurre da dietro ». Il colpo a sorpresa dei russi, che tornano a proporsi come lord protettori di un atroce regime siriano sul quale pesa la responsabilità della guerra civile, della rivolta, dei bombardamenti di civili e della degenerazione delle resistenza nel jihadismo sponsorizzato dall’Is, è specialmente abile perché mette Obama, e con lui l’Europa, di fronte alle contraddizioni paralizzanti che hanno permesso sia ad Assad di sopravvivere, sia ai tagliatori di teste di prosperare. Dopo la ventata di illusioni sollevata dalle primavere arabe sfociate nel disastro dell’attacco a Muhammar Gheddafi voluto dai francesi di Sarkozy e poi subito dagli americani, l’Occidente si è scoperto a essere tutto e il contrario di tutto, nel sanguinoso guazzabuglio mediorientale, contemporaneamente alleato dei nemici e nemico degli alleati.
Dall’agosto del 2013, quando Obama tracciò la “linea nella sabbia” delle armi chimiche proibite ad Assad arrivando a poche ore dalla spallata militare per deporlo, con chi siano, e contro chi siano schierati gli Usa, la Nato e l’Europa è diventato incomprensibile. In Iraq Washington ha abbandonato i clan sunniti che avevano limitato gli abusi del regime dello sciita Nouri al-Maliki spalancando la strada al Califfo. Ha prima scaricato i curdi del nord per non irritare l’alleato turco e poi si è mossa con operazioni aree per puntellarli nella resistenza contro l’Is. In Siria, abbandonata l’ipotesi di una guerra guerreggiata per cambiare il regime, il Pentagono ha sprecato 500 milioni di dollari per addestrare un’immaginaria forza di ribelli “buoni”, tradotta in un totale di cinque combattenti contro i jihadisti, cento milioni ciascuno, secondo il rapporto ufficiale del Dipartimento della Difesa.
Nel guazzabuglio dell’indecisione e delle mezze misure, Putin si è tuffato con una mossa che ha per lui due obiettivi chiari: il primo è quello di tenere il piedi e rafforzare l’ultimo satellite russo in Medio Oriente, Assad, garantendosi due importanti basi militari per l’Armata e la Flotta russe, l’aereoporto di Latakia e la base navale di Tartus, l’unico porto nel Mediterraneo a disposizione della sua Marina. Ma all’interno di questa operazione da classico ancien regime sovietico a somma zera — quello è mio non è tuo — c’è un nocciolo ancor più importante per Putin: è il suo atteggiarsi a unica potenza militare decisa a combattere con la forza lo stato islamico e l’Is.
Non soltanto cerca di presentarsi come il baluardo della cristianità contro le ore dei nuovi tartari, pronto a combatterli nelle sabbie della Siria e dell’Irak. In più, suggerisce, senza dirlo apertamente, che il ritorno di un protettorato russo su regioni abbandonate dopo il crollo dell’Urss servirebbe a bloccare l’esodo biblico di profughi da quelle regioni. Se noi russi riusciremo a stabilizzare quegli stati distrutti dall’avventurismo americano prima e poi dalla titubanza di Obama, vuole dirci Putin, dimostreremo chi, fra il grande vicino lontano e stanco, e il nuovo vicino vigoroso e deciso è il vero amico dell’Europa.
La posta del “Grande Gioco”, del Risiko di Putin, è dunque sempre quello che da secoli domina il pensiero dei successivi signori della Piazza Rossa: allargare la propria sfera di influenza a occidente, sull’Europa. Nella prospettiva di una successione a Obama, sia essa democratica o repubblicana, di nuovo votata all’isolazionismo e alla stanchezza delle avventure oltre oceano, Mosca vede aprirsi uno spazio politico che né la Grande Russia zarista, né la Unione Sovietica trovarono: la fragilità di un’Europa incapace di essere una forza politica compatta, sempre meno cementata dall’America. Putin vuol passare per Damasco per arrivare a Berlino, a Parigi, a Roma, scommettendo sulla inesistenza politica dell’Europa spaventata e divisa e sulla inconsistenza strategica dell’America di Obama.


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