Guerre, muri, quote, i tre veleni dell’Europa
I governi dell’Unione europea non avevano previsto le conseguenze del caos e delle guerre che hanno generato l’attuale flusso di profughi. Hanno prevalso, ieri e oggi, cinismo e irresponsabilità. E gli ultimi vertici dell’Unione hanno preso o stanno per prendere tre decisioni miserabili: fare la guerra agli scafisti, preludio all’estensione del fronte di guerra a tutta la Libia e oltre; rendere le frontiere esterne dell’Unione impermeabili ai profughi (lo esige il premier ungherese Orban); imporre quote obbligatorie di profughi a tutti gli Stati membri, come se ci fosse da spartirsi un carico di emissioni o di materiali inquinanti, e non persone al culmine delle loro sofferenze. Ma l’accoglienza è un’altra cosa, richiede rispetto, dignità, diritti, e poi anche casa, lavoro, istruzione e tutele, cose per cui la Commissione non prevede né standard comuni né stanziamenti. La guerra agli scafisti libici è un alibi, un’infamia e un crimine.
E’ un alibi: si vuol far credere che le maniere forti possano sostituire l’accoglienza che non c’è. E per ridimensionare i flussi — e risolvere la questione – si conta di accogliere i rifugiati (quelli che provengono da paesi “insicuri”, in guerra) e di respingere i migranti (quelli che provengono da paesi definiti “sicuri”). Anche Prodi ha ricordato che nessuno Stato dell’Africa — e meno che mai Iraq, Afghanistan o Kurdistan – è sicuro; e anche il ministero degli esteri avverte i turisti che tutti i paesi da cui provengono i migranti non sono sicuri. Se in tanti rischiano morte e violenza per fuggire dal loro paese è perché là non possono più vivere.
E’ un’infamia, perché nasconde il fatto che se venissero approntati corridoi umanitari per permettere a chi fugge di raggiungere in sicurezza l’Europa, gli scafisti di mare e di terra non esisterebbero e si sarebbero evitate decine di migliaia di morti. E’ un crimine, perché fermare gli scafisti in Libia (nessuno, però, ha proposto di bombardare quelli della Turchia, altrettanto spietati), posto che sia fattibile, significa ricacciare i profughi nel deserto, condannandoli ai tanti modi di morire a cui si erano appena sottratti.
D’altronde gli hotspot pretesi da Junker e Angela Merkel in cambio delle quote di rifugiati da smistare in Europa sono la menzogna con cui si intende dimezzare il numero da accogliere, sbarazzandosi di coloro a cui non verrà riconosciuto lo status di rifugiati. Ma come si fa a rimpatriarne così tanti? E in paesi con cui non esistono accordi di rimpatrio e dove spesso non ci sono nemmeno autorità a cui riconsegnarli? Appena sbarcati, se non saranno imprigionati o soppressi, riprenderanno la strada per l’Europa a costo della vita: non hanno altra scelta.
Evidente è la gara tra gli Stati dell’Unione per scaricarsi a vicenda l’onere di un’accoglienza che nessuno vuole accollarsi. Ma la vera contropartita delle quote è che chi non rientra in esse dovrà restare dov’è: se non potrà, e non potrà, essere rimpatriato, dovrà farsene carico il paese di arrivo: Italia o Grecia; paesi che, anche se volessero, non potrebbero circondare di filo spinato le proprie coste come l’Ungheria fa con i suoi confini. La Spagna l’ha già fatto a Ceuta e Melilla; la Grecia dell’ex ministro Avramopoulos, ai confini con la Turchia; Francia e Regno Unito a Calais; la Bulgaria ha schierato l’esercito; Germania, Austria, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca e Francia cercano di chiudere le frontiere… Così, anche se Angela Merkel lascia credere di avere forze e mezzi per affrontare la situazione, la soluzione con cui ripropone la sua leadership sull’Unione ne assegna i vantaggi alla Germania e ne scarica i costi sui paesi più deboli ed esposti. Proprio come con l’euro.
Sanzioni incisive, fino all’espulsione, contro gli Stati che rifiutano le quote — peraltro già ora insufficienti — sarebbero altrettanto rischiose per la coesione che accettare che ciascuno vada per conto suo. Così, se il feroce braccio di ferro con la Grecia ha inferto un duro colpo all’immagine di un’Unione portatrice di vantaggi e benessere per tutti i suoi membri, la vicenda dei profughi sta dando il colpo di grazia all’unità di una aggregazione di Stati tenuti insieme solo dai debiti e dal potere della finanza.
Trasformare l’Europa in fortezza significa avallare e promuovere lo sterminio per mare e soprattutto per terra di chi cercherà ancora di fuggire dal suo paese; moltiplicare ai confini del continente caos e guerre che tracimeranno in Europa: con altri profughi, ma anche con terrorismo e aspri conflitti sociali; e consegnare al razzismo il governo degli Stati dell’Unione sempre più divisi. Chiunque sia a gestirli: destre, centri o “sinistre”.
Ma si può accogliere centinaia di migliaia, e domani milioni di profughi senza un programma di inserimento sociale: casa, lavoro, reddito, istruzione e diritti per tutti? Si può “tenerli lì” per anni a far niente, in sistemazioni di fortuna (che in Italia stanno arricchendo migliaia di profittatori) o in carceri come i Cie? Ne va innanzitutto della loro dignità di esseri umani. Ma è anche intollerabile per tanti cittadini europei che abitano e lavorano accanto a loro, o che sono già ora senza lavoro, o senza casa, o senza reddito, abbandonati dallo Stato. E’ il modo migliore per alimentare tra loro rancore, rigetto e razzismo.
Il modo in cui l’Unione tratta i popoli dei suoi Stati più deboli, come quello greco, ma non solo, e sfrutta i paesi africani e mediorientali e i loro abitanti, e soprattutto cerca di sbarazzarsi di quelli di loro che vogliono diventare, e già si sentono, cittadini europei, è la negazione di tutto ciò che la Comunità, e poi l’Unione europea, sembravano promettere con il richiamo ideale allo spirito di Ventotene. L’alternativa a questo processo di dissoluzione non può essere che l’abbandono delle politiche di austerità e il varo di un grande piano europeo per l’inserimento sociale e lavorativo sia di profughi e migranti che dei milioni di cittadini europei oggi senza lavoro, senza casa, senza reddito, senza futuro; affidandone la gestione a quelle strutture dell’economia sociale e solidale che hanno dimostrato di saperlo fare. Ma è anche la condizione irrinunciabile per aiutare i profughi a costituirsi in base sociale e punto di riferimento politico per la riconquista alla pace e alla democrazia dei loro paesi di origine; per l’allargamento all’area mediterranea e nordafricana di un’Unione europea da rifondare dalle radici.
I contenuti di quel piano non possono che essere le misure e gli investimenti necessari per far fronte agli impegni sul clima da assumere alla prossima “Cop-21? di Parigi, se si vuole che l’Europa faccia la sua parte per arginare una catastrofe imminente. Sono misure in grado di dare lavoro, reddito e sistemazione a tutti: profughi, migranti e cittadini europei. Un piano del genere, che ha una dimensione economica, ma deve avere soprattutto un risvolto sociale e una articolazione fondata sull’attenzione alle persone e alle vicende individuali di ciascuno, non può essere delegato né agli Stati, né agli organi dell’Unione, né alle logiche del mercato. Deve nascere, rapidamente, da un confronto tra tutte le forze sociali impegnate sul fronte del cambiamento e trovare in un soggetto attuatore adeguato. Che non può essere che la rete europea dell’economia sociale e solidale. Per tradursi al più presto in una piattaforma politica da proporre e sostenere in alternativa alle scelte spietate e paralizzanti di questa Europa.
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