“E ora pagateci per i nostri post” L’ultima crociata contro i social

“E ora pagateci per i nostri post” L’ultima crociata contro i social

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Non uno, ma 400 milioni di spettri si aggirano per l’Europa: sono gli utenti del web e dei social network, invisibili fantasmi, nella loro incorporea presenza online, che formano oggi l’esercito di riserva del capitalismo digitale. I selfie delle vacanze su Facebook e le battute che twittiamo civettuoli sono sì attività piacevoli ma niente affatto improduttive. Perlomeno per noi. Valgono infatti, nel loro insieme, miliardi di dollari. Creando e scambiando contenuti, infatti, aumentiamo il traffico sui social network permettendo loro di vendere sempre più pubblicità. Facebook prevede per quest’anno 6,82 miliardi di dollari di introiti pubblicitari, ma non li condividerà con i suoi “operai digitali”, ossia gli utenti, perché costoro non sanno nemmeno di lavorare. Ma di recente si levano più alte le voci di quei sociologi, economisti ed attivisti sindacali che ritengono che si debba corrispondere la giusta mercede anche a chi clicca, scrive e condivide online: sono di qualche giorno fa due polemiche su Liberation e sul Guardian che fanno pensare che un Quarto Stato digitale si sia messo in marcia per i suoi diritti.
«Il lavoro digitale, cioè la riduzione delle nostre relazioni e attività digitali a momento della produzione, è un fenomeno invisibile, ma la sua vera natura emerge in caso di crisi, come quando nel 2014 Flickr annunciò che avrebbe iniziato a fare profitti vendendo le foto messe online dai suoi iscritti» spiega il sociologo Antonio Casilli, docente al Paris Tech e autore del nuovo saggio “Qu’est-ce que le Digital Labor?” (ed. Ina). Il convitato di pietra nei discorsi sul lavoro digitale è la remunerazione. «Esistono valutazioni, pubblicate in studi universitari, che stimano il valore di un profilo Facebook tra 11 e 24 dollari. Ma sono stime irrisorie, opache e distorte, volute dai social media stessi, che tendono a finanziare questi studi perché producano questi modelli econometrici al ribasso » osserva Casilli. «Ma oggi qualcosa si muove. I sindacati sembrano più sensibili al tema del lavoro digitale: l’IG Metall tedesca, ad esempio, ha da poco lanciato la piattaforma online faircrowdwork.org, dove tutti coloro che fanno lavoretti online come quelli offerti da TaskRabbit possono scambiarsi recensioni sui datori di lavoro e denunciare casi di sfruttamento». Ma lo sfruttamento peggiore è quello che imponiamo a noi stessi. «Ci sembra di avere sempre meno tempo, nelle nostre vite. Ma il tempo in sé è rimasto invariato. È il tempo libero che sta scomparendo » spiega Craig Lambert, giornalista dell’Harvard Magazine e autore del recente saggio “Shadow work: the unpaid, unseen jobs that fill your day” (ed. Counterpoint). «Basta pensare alla nostra giornata-tipo per renderci conto che siamo sempre più indaffarati in piccole attività che a noi non portano nessun reddito, ma che fanno arricchire, o risparmiare, qualche azienda. Siamo nell’era del “lavoro ombra”, un fenomeno che ha introdotto una novità sociale: il lavoro servile – proprio perché non retribuito – per la classe media. Ma il lavoro-ombra che facciamo per i social network, o quando rimpiazziamo quello di un impiegato di banca con i nostri clic su un sito di online banking, o quando scriviamo recensioni per siti come Amazon o Tripadvisor, ha una scala, un’ubiquità e una pervasività totale, in grado di ricoprire, potenzialmente, ogni nostro momento di veglia, azzerando il tempo che potremmo dedicare a tutto ciò che non è né produzione né consumo ».
Il tempo libero è invaso e mercificato. «Oggi la crisi del capitalismo fa sì che per produrre nuovi beni e nuove commodity si tirino dentro il mercato, monetizzandoli, aspetti della vita che in passato erano considerati estranei all’economia e al profitto. Come le relazioni sociali» commenta Ursula Huws, sociologa del lavoro all’Università di Hertfordshire e autrice del saggio “Labor in the global digital economy: the Cybertariat age”. «Il bisogno di comunicare con gli amici e di scambiarsi consigli e battute è connaturato all’umanità, un bisogno elementare come respirare: fino a poco tempo fa non avremmo mai potuto immaginare che le dure leggi del capitalismo avrebbero invaso anche questo ambito». Grazie alla tecnologia. «Da un lato l’informatica struttura e standardizza realtà fino a ieri del tutto informali: ad esempio Uber o TaskRabbit parcellizzano e regolano con precisione taylorista i lavori del tassista o del tuttofare. Dall’altro lato, però, destrutturano e rendono informale, o meglio precario, il mondo del lavoro così come lo conoscevamo».


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