by redazione | 10 Settembre 2015 9:44
Al bazar di Bombay, un paio di jutti senza decorazione – la tradizionale scarpa di cuoio originaria dell’India del Nord – può costare un paio di euro. Si arriva a dieci se si compra il modello con plantare che si trova, seppur ormai con difficoltà, nei negozi di calzature di lusso. Anche molti indiani infatti hanno smesso di portarle per preferirgli copie di modelli stranieri o originali che hanno gli stessi prezzi delle vetrine italiane. Può sembrar buffo non trovare quasi più le jutti “base” (quelle istoriate per i matrimoni si comprano nei negozi specializzati) nel Paese che le ha inventate: ma anche questo è un effetto della globalizzazione che ha investito l’India, sino all’altro ieri la nazione più tradizionalista del mondo in fatto di moda.
Il paradosso è poi che gran parte delle “originali” straniere vengono fabbricate proprio nell’Unione. A salari spesso ridicoli e con un ricarico per l’ideatore del modello che, grazie a una manodopera ampia e a basso costo, fa la sua fortuna su ogni stringa allacciata o sulle décolleté.
Nel mondo si fabbricano ogni anno circa 22 miliardi di paia di scarpe che per l’87% sono prodotte in Asia. La Cina fa la parte del leone e si stima che su tre paia di scarpe due siano Made in China. Quelle di buona qualità, quelle in cuoio come le jutti, sono sempre un patrimonio cinese: il 40% del totale. Poi ci sono Italia e Messico (col 6% di quota di mercato ciascuno), Brasile e, appunto, India dove si fabbrica il 4% delle scarpe del mondo.
In termini percentuali vuol dire che l’Unione indiana produce poco meno di 900 milioni di paia di scarpe. È chiaro che non sono fatte solo per il mercato interno, in un Paese dove nemmeno tutti le hanno ai piedi dove per lo più si sfoggiano infradito.
La realtà chiusa nella scarpiera
Diciotto organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani — dall’austriaca Südwind Agentur all’Italiana Abiti Puliti[1], dal Trade Union Rights Centre indonesiano all’indiana Society for Labour and Development – hanno deciso di vederci chiaro in un mondo che, come quello del tessile o degli accessori, nasconde spesso violazioni di diritti elementari tra cui quello di avere un salario dignitoso per il proprio lavoro. Se le scarpe sono nel cuore e negli armadi di tutti noi – uomini e donne senza distinzione – lontano dal cuore e dagli occhi è la realtà di chi le produce. Così lontana che, forse per la prima volta, qualcuno tenta di far fare un nuovo salto alla nostra coscienza: oltre le magliette prodotte in Bangladesh o i palloni e i tappeti assemblati in Pakistan. Si, certo, case importanti come la Nike sono già entrate nell’occhio del ciclone e per battaglie transnazionali che hanno ottenuto risultati.
Ma ora la campagna Change Your Shoes (Cambia le scarpe) si proprone di far capire a tutti cosa c’è dietro il mondo delle calzature: oltre alle violazioni e al problema dei salari, l’impatto ambientale ad esempio o la scarsa trasparenza sui prodotti con cui camminiamo ogni giorno.
L’industria delle calzature – dice il rapporto della campagna[2] — necessita di una massiccia forza lavoro e di una grande quantità di manodopera non specializzata, il che rende appetitosa la delocalizzazione. Ma a salari bassi spesso corrispondono anche tolleranza negli abusi ambientali (una manna per il settore di produzione del cuoio) e violazioni di norme di sicurezza minime senza contare la piaga del lavoro minorile. In molti di questi Paesi, salari bassi, straordinari illegali, e assenza di misure di sicurezza per la salute, dipendono delle restrizioni sulla contrattazione collettiva e sulla libertà di associazione sindacale.
Guadagni clamorosi
Facciamo qualche esempio: nel caso indonesiano, se un paio di scarpe costa 100 euro, generalmente chi le ha prodotte (in questo caso un indonesiano/a) percepisce circa 2 euro, ossia una cifra pari al 2% del prezzo di vendita. Come si vede dall’illustrazione qui a fianco, scomponendo la ricostruzione grafica di una scarpa, il brand ha acquistato dal produttore un paio di scarpe sportive in Indonesia per 20 euro e le ha rivendute al distributore per 50 euro. Le scarpe sono state successivamente vendute al dettagliante per 55 euro e, al termine della catena distributiva, l’acquirente finale le ha acquistate in negozio al prezzo di 120 euro. I margini di guadagno per prodotto sono, in questo caso, clamorosamente lontani dal salario di chi le ha effettivamente prodotte: 2,5 euro.
Un’indiana di 65 anni di Ambur, in India, cuce scarpe a domicilio da oltre 20 anni e ogni giorno le vengono recapitate le tomaie da cucire e da consegnare la sera. Per ogni paio di scarpe riceve 0,14 euro e anche se riesce a cucirne 10 al giorno (circa 1,5 euro) è troppo poco per vivere.
Si dirà che è forse un caso limite e che questa è una legge di mercato la cui distorsione intrinseca, corroborata dalla delocalizzazione, rientra nell’antico dissidio capitale-lavoro. Ma se a Fermo nelle Marche – per citare una della maggiori zone di produzione italiana – i lavoratori possono farsi sentire, la voce del messicano o dell’indonesiano difficilmente arriva, non tanto a chi compra le scarpe ma nemmeno ai governi locali.
Nessun tipo di garanzia
L’industria delle calzature – dice il rapporto — subappalta attività a cottimo al lavoro sommerso e a domicilio, che dà modo al datore di lavoro di ridurre i costi perché non vengono pagati i contributi e i lavoratori si accollano direttamente l’affitto, l’elettricità, i macchinari e i costi di manutenzione. Inoltre chi lavora a casa non ha nessun tipo di garanzia e dipende solo dall’offerta di lavoro.
Inoltre c’è la questione ambientale: quasi la metà di tutto il cuoio globale è prodotto in Asia con processi rischiosi di produzione come la conciatura, che in alcuni casi può produrre cromo esavalente, una sostanza altamente tossica (circa l’80–90% della pelle è conciata usando il cromo, una conciatura più economica rispetto all’uso di sostanze organiche). Nelle concerie infine, gli operai lavorano spesso senza protezioni o misure di sicurezza adeguate da cui derivano gravi malattie perché i composti del cromo esavalente sono considerati cancerogeni.
Sono situazioni in cui si riscontra anche il il fenomeno del lavoro minorile, per cui vengono impiegati i bambini in attività pericolose soprattutto nel settore sommerso della conceria, in luoghi dove le ispezioni sono poco probabili.
Ecco cosa c’è, oltre il plantare, nelle suole delle nostre scarpe.
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