Diritti sotto i piedi, cambia le tue scarpe

Diritti sotto i piedi, cambia le tue scarpe

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Al bazar di Bom­bay, un paio di jutti senza deco­ra­zione – la tra­di­zio­nale scarpa di cuoio ori­gi­na­ria dell’India del Nord – può costare un paio di euro. Si arriva a dieci se si com­pra il modello con plan­tare che si trova, sep­pur ormai con dif­fi­coltà, nei negozi di cal­za­ture di lusso. Anche molti indiani infatti hanno smesso di por­tarle per pre­fe­rir­gli copie di modelli stra­nieri o ori­gi­nali che hanno gli stessi prezzi delle vetrine ita­liane. Può sem­brar buffo non tro­vare quasi più le jutti “base” (quelle isto­riate per i matri­moni si com­prano nei negozi spe­cia­liz­zati) nel Paese che le ha inven­tate: ma anche que­sto è un effetto della glo­ba­liz­za­zione che ha inve­stito l’India, sino all’altro ieri la nazione più tra­di­zio­na­li­sta del mondo in fatto di moda.

Il para­dosso è poi che gran parte delle “ori­gi­nali” stra­niere ven­gono fab­bri­cate pro­prio nell’Unione. A salari spesso ridi­coli e con un rica­rico per l’ideatore del modello che, gra­zie a una mano­do­pera ampia e a basso costo, fa la sua for­tuna su ogni stringa allac­ciata o sulle décolleté.

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Pro­du­zione di scar­pini da cal­cio a Jalan­d­har, India (foto Ap)

Nel mondo si fab­bri­cano ogni anno circa 22 miliardi di paia di scarpe che per l’87% sono pro­dotte in Asia. La Cina fa la parte del leone e si stima che su tre paia di scarpe due siano Made in China. Quelle di buona qua­lità, quelle in cuoio come le jutti, sono sem­pre un patri­mo­nio cinese: il 40% del totale. Poi ci sono Ita­lia e Mes­sico (col 6% di quota di mer­cato cia­scuno), Bra­sile e, appunto, India dove si fab­brica il 4% delle scarpe del mondo.

In ter­mini per­cen­tuali vuol dire che l’Unione indiana pro­duce poco meno di 900 milioni di paia di scarpe. È chiaro che non sono fatte solo per il mer­cato interno, in un Paese dove nem­meno tutti le hanno ai piedi dove per lo più si sfog­giano infradito.

La realtà chiusa nella scarpiera

Diciotto orga­niz­za­zioni impe­gnate nella difesa dei diritti umani — dall’austriaca Süd­wind Agen­tur all’Italiana Abiti Puliti, dal Trade Union Rights Cen­tre indo­ne­siano all’indiana Society for Labour and Deve­lo­p­ment – hanno deciso di vederci chiaro in un mondo che, come quello del tes­sile o degli acces­sori, nasconde spesso vio­la­zioni di diritti ele­men­tari tra cui quello di avere un sala­rio digni­toso per il pro­prio lavoro. Se le scarpe sono nel cuore e negli armadi di tutti noi – uomini e donne senza distin­zione – lon­tano dal cuore e dagli occhi è la realtà di chi le pro­duce. Così lon­tana che, forse per la prima volta, qual­cuno tenta di far fare un nuovo salto alla nostra coscienza: oltre le magliette pro­dotte in Ban­gla­desh o i pal­loni e i tap­peti assem­blati in Paki­stan. Si, certo, case impor­tanti come la Nike sono già entrate nell’occhio del ciclone e per bat­ta­glie trans­na­zio­nali che hanno otte­nuto risultati.

Ma ora la cam­pa­gna Change Your Shoes (Cam­bia le scarpe) si pro­prone di far capire a tutti cosa c’è die­tro il mondo delle cal­za­ture: oltre alle vio­la­zioni e al pro­blema dei salari, l’impatto ambien­tale ad esem­pio o la scarsa tra­spa­renza sui pro­dotti con cui cam­mi­niamo ogni giorno.

L’industria delle cal­za­ture – dice il rap­porto della cam­pa­gna — neces­sita di una mas­sic­cia forza lavoro e di una grande quan­tità di mano­do­pera non spe­cia­liz­zata, il che rende appe­ti­tosa la delo­ca­liz­za­zione. Ma a salari bassi spesso cor­ri­spon­dono anche tol­le­ranza negli abusi ambien­tali (una manna per il set­tore di pro­du­zione del cuoio) e vio­la­zioni di norme di sicu­rezza minime senza con­tare la piaga del lavoro mino­rile. In molti di que­sti Paesi, salari bassi, straor­di­nari ille­gali, e assenza di misure di sicu­rezza per la salute, dipen­dono delle restri­zioni sulla con­trat­ta­zione col­let­tiva e sulla libertà di asso­cia­zione sindacale.

Gua­da­gni clamorosi

grafico tratto da www.abitipuliti.org
gra­fico tratto da www?.abi?ti?pu?liti?.org

Fac­ciamo qual­che esem­pio: nel caso indo­ne­siano, se un paio di scarpe costa 100 euro, gene­ral­mente chi le ha pro­dotte (in que­sto caso un indonesiano/a) per­ce­pi­sce circa 2 euro, ossia una cifra pari al 2% del prezzo di ven­dita. Come si vede dall’illustrazione qui a fianco, scom­po­nendo la rico­stru­zione gra­fica di una scarpa, il brand ha acqui­stato dal pro­dut­tore un paio di scarpe spor­tive in Indo­ne­sia per 20 euro e le ha riven­dute al distri­bu­tore per 50 euro. Le scarpe sono state suc­ces­si­va­mente ven­dute al det­ta­gliante per 55 euro e, al ter­mine della catena distri­bu­tiva, l’acquirente finale le ha acqui­state in nego­zio al prezzo di 120 euro. I mar­gini di gua­da­gno per pro­dotto sono, in que­sto caso, cla­mo­ro­sa­mente lon­tani dal sala­rio di chi le ha effet­ti­va­mente pro­dotte: 2,5 euro.

Un’indiana di 65 anni di Ambur, in India, cuce scarpe a domi­ci­lio da oltre 20 anni e ogni giorno le ven­gono reca­pi­tate le tomaie da cucire e da con­se­gnare la sera. Per ogni paio di scarpe riceve 0,14 euro e anche se rie­sce a cucirne 10 al giorno (circa 1,5 euro) è troppo poco per vivere.

Si dirà che è forse un caso limite e che que­sta è una legge di mer­cato la cui distor­sione intrin­seca, cor­ro­bo­rata dalla delo­ca­liz­za­zione, rien­tra nell’antico dis­si­dio capitale-lavoro. Ma se a Fermo nelle Mar­che – per citare una della mag­giori zone di pro­du­zione ita­liana – i lavo­ra­tori pos­sono farsi sen­tire, la voce del mes­si­cano o dell’indonesiano dif­fi­cil­mente arriva, non tanto a chi com­pra le scarpe ma nem­meno ai governi locali.

Nes­sun tipo di garanzia

L’industria delle cal­za­ture – dice il rap­porto — subap­palta atti­vità a cot­timo al lavoro som­merso e a domi­ci­lio, che dà modo al datore di lavoro di ridurre i costi per­ché non ven­gono pagati i con­tri­buti e i lavo­ra­tori si accol­lano diret­ta­mente l’affitto, l’elettricità, i mac­chi­nari e i costi di manu­ten­zione. Inol­tre chi lavora a casa non ha nes­sun tipo di garan­zia e dipende solo dall’offerta di lavoro.

Inol­tre c’è la que­stione ambien­tale: quasi la metà di tutto il cuoio glo­bale è pro­dotto in Asia con pro­cessi rischiosi di pro­du­zione come la con­cia­tura, che in alcuni casi può pro­durre cromo esa­va­lente, una sostanza alta­mente tos­sica (circa l’80–90% della pelle è con­ciata usando il cromo, una con­cia­tura più eco­no­mica rispetto all’uso di sostanze orga­ni­che). Nelle con­ce­rie infine, gli ope­rai lavo­rano spesso senza pro­te­zioni o misure di sicu­rezza ade­guate da cui deri­vano gravi malat­tie per­ché i com­po­sti del cromo esa­va­lente sono con­si­de­rati cancerogeni.

Sono situa­zioni in cui si riscon­tra anche il il feno­meno del lavoro mino­rile, per cui ven­gono impie­gati i bam­bini in atti­vità peri­co­lose soprat­tutto nel set­tore som­merso della con­ce­ria, in luo­ghi dove le ispe­zioni sono poco probabili.

Ecco cosa c’è, oltre il plan­tare, nelle suole delle nostre scarpe.



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