BELI MANASTIR(CROAZIA) . Il drone nero volteggia sopra il confine. È ungherese. Si alza fino a 200 metri. Si blocca. Resta immobile. Sospeso. Ondeggia verso l’alto spinto dalle correnti più calde. Fasci di luce lampeggiano intermittenti. Registra tutto ciò che accade più in basso. In territorio croato. Soldati dei reparti speciali di Budapest sono schierati in fila. Come un muro. Il muro provvisorio. Quello vero, lo costruiscono altri. Alle loro spalle. Imbracciano fucili automatici, calzano gli elmetti. Due blindati Humwee, mitragliatrice sulla torretta, sorvegliano ai lati. Il silenzio è rotto solo da urla soffocate che si sentono in lontananza. Lamenti, pianti, proteste. Gli scontri a Beli Monastir, dieci chilometri più a ovest, scoppiati tra migranti e polizia, sono finiti da poco. Sui bordi della strada ci sono i resti della battaglia: sassi, bastoni, stracci, vestiti, scarpe. Il drone resta sospeso una buona mezz’ora. A terra, schiacciati su un perimetro di cento metri, circondati da agenti speciali e soldati in tuta mimetica con mascherine azzurre e guanti di pelle nera, quasi mille persone attendono di conoscere il loro destino.
Siamo al posto di frontiera croato di Baranjsko Petrovo Selo. Davanti a noi, cinquanta metri scarsi, sorge quello ungherese di Beremend. Da giovedì notte 600 soldati del genio stanno costruendo il secondo muro voluto dal premier conservatore Viktor Orbàn. Li vediamo all’opera. Assieme alle ruspe e alle gru. Pali di acciaio, uniti da una rete metallica sormontata da rotoli di filo spinato. L’Ungheria si blinda. Con un secondo muro. A sud e a ovest. Dopo la Serbia, chiude le porte anche alla Croazia. Le considera troppo tenera con questo esodo imponente e infinito. Non si fida. Alza barriere e scava trincee. Mobilita l’esercito. Come in un castello assediato da straccioni e marmaglia che minacciano il suo orgoglioso isolamento.
Altri 500 militari sono arrivati in nottata, 700 stamani. Chiuderanno tutti i 41 chilometri di confine con Zagabria entro stasera. «Alzo questo nuovo muro », si giustifica il premier Orbán davanti ai giornalisti convocati in fretta e furia, «perché nessuno ci aiuta. Non possiamo contare sull’aiuto della Serbia né della Croazia. Tanto meno dell’Europa occidentale». Il primo ministro croato, Zoran Milanovic, gli risponde pochi minuti dopo: «E’ inaccettabile. I muri non hanno mai bloccato alcuno ». È furibondo. Da mercoledì deve fare i conti con un fiume umano inarrestabile. Ne sono entrati oltre 15mila in 48 ore. Aveva aperto le frontiere ma si è pentito. Il ministro degli Interni, Ranko Ostojic, si sfoga: «Abbiamo fatto il possibile. Adesso basta. Siamo saturi».
La risposta al muro è la chiusura di 7 frontiere con la Serbia. Resta aperto solo il valico di Bajacovo. Rifugiati e migranti sono lasciati passare tra i campi a ridosso di Tovarik. La polizia croata osserva e lascia stare. Recupera tutti e li imbarca sui bus. Fa parte del piano che prende corpo. Ora dopo ora. Un piano concordato tra le polizie dei tre paesi toccati dall’esodo. In modo ufficioso. La posizione intransigente dell’Ungheria, quella sbandierata e sostenuta da mesi, resta invariata. Blocchi delle frontiere e muri a difesa dell’integrità del paese. Il lungo serpente di uomini, donne, vecchi e bambini segue un percorso che va a ritroso: dalla Croazia si torna in Ungheria e da lì, in treno e autobus, fino ai villaggi di Szentgotthard e Vamosszabadi, al confine con l’Austria.
La voce ci raggiunge anche qui. Scuote queste 600 anime in pena. Sono affrante e distrutte. Arrivano a ondate, trasferite da decine di bus che approdano da Tovarnik, da Beli Manastir, da Zagabria, da Principovar, da Batina. Accolti e rispediti da dove sono arrivati. La gente protesta, non vuole scendere dai mezzi, ormai non si fida più. Troppi inganni. I poliziotti sono nervosi, li strattonano, li minacciano con i manganelli. L’ordine del premier Milanovic è stato chiaro: «Abbiamo un cuore ma anche una mente. Non siamo di- sposti a diventare un hotspot per i migranti». La Serbia sorride. Sarcastica: «La vostra solidarietà è durata neanche due giorni ». Parole e polemiche che lasciano indifferente questo popolo di invisibili. Sui loro volti c’è delusione, amarezza, rabbia. Occhi arrossati, pelle arsa dal vento e dal sole. Le labbra serrate che si muovono solo per le preghiere. I pianti sommessi dei bambini. L’appello disperato di un padre che ha perso sua figlia mentre sale sul bus. Il marito che chiama a squarciagola la moglie, stravolta dalla fatica e addormentata sotto un albero lontano.
I poliziotti premono. Guidano uno stuolo di uomini e donne ridotti ad un gregge senza più una meta e un destino. La imbarcano su altri bus. Arriva il buio. Il drone torna ad alzarsi in cielo e punta i suoi infrarossi sui pullman che varcano la frontiera. Viaggeranno tutta la notte. Un treno con altri mille migranti sfreccia verso l’Austria. L’Ungheria accetta di far passare un corridoio umanitario. Il problema adesso è di Vienna. Che insorge: «Non ne sappiamo nulla ». Tutti ignorano. O fanno finta. Ognuno difende i propri interessi. L’importante è disfarsi di una massa umana imbarazzante. Gente che respira, pensa, spera, soffre, sogna. E che un altro muro, tra condanne formali e molta indifferenza, adesso ha trasformato in merce.