A CHE PUNTO è la guerra all’Is? Cominciamo da un episodio rivelatore. 27 agosto, giovedì, provincia di Al Anbar, Iraq occidentale. Dallo scorso 17 maggio l’Is, già padrona di Falluja, occupa il capoluogo, Ramadi. Ramadi è ad appena un centinaio di chilometri da Bagdad. La sua conquista era stata un ennesimo scandalo militare iracheno. Così me la riassume un disgustato comandante peshmerga: «Sessantamila militari, di cui una metà sunniti, hanno reso le armi a 19 autobombe suicide e 165 uomini di Daesh». Da allora, la coalizione aveva solennemente annunciato l’imminente riconquista di Ramadi. Succede così, in questa strana guerra: loro ce le danno, ma noi gliele diciamo. A Mosul, la seconda città irachena — giugno 2014 — governo di Bagdad e coalizione annunciano la riconquista per la primavera, poi si correggono: anche prima. È autunno, e Mosul è ancora nelle mani del Califfato, che batte moneta, stampa i suoi libri scolastici e vende donne al mercato. Succede così a Palmira: loro la espugnano, la coalizione proclama che la riprenderà, loro la abbattono. A fine maggio, il presidente iracheno Haider al- Abadi dichiarò che la riconquista di Ramadi era “questione di giorni”. Questo 27 agosto, dunque: la coalizione si prepara a una nuova avanzata alla volta di Ramadi. Più esattamente, è dal 13 luglio che esercito iracheno, milizie sciite, e aerei americani, francesi e britannici hanno dato il via alla controffensiva su Ramadi e Fallujah. Anche uomini delle forze speciali occidentali (qualche decina di italiani, probabilmente) sono sul campo.
La situazione è complicata dalla penosa impreparazione dell’esercito iracheno, e dall’invadenza feroce dei paramilitari sciiti — Hashd al-Shaabi, “Mobilitazione popolare” — in territorio sunnita, che gli americani cercano di arginare. L’esercito iracheno e le forze alleate si trovano a Al Tarrah, nel distretto di Jarayshi, 18 chilometri a Nord di Ramadi. Il portavoce dell’Operazione, Brigadiere Generale Yahya Rasool, annuncia che un convoglio con due generali, Abdul Rahman Abu Ragheef, vice-comandante dell’intera operazione al Anbar, e Abdul Safeen Majid, comandante della 10° Divisione, ha intercettato un veicolo esplosivo: nello scoppio i due alti ufficiali sono morti, e con loro altri tre militari. All’indomani, mentre altri 60 militari iracheni muoiono in due esplosioni nella stessa zona, si giura vendetta per i nuovi martiri e si celebrano i funerali di Ragheef, a Najaf — città santa sciita — e di Majid, in Kurdistan, dov’è nato. Lo stesso giorno, venerdì 28, il Comando Operativo Congiunto annuncia di aver ucciso i membri della cellula dell’Isis responsabile dell’attacco che è costato la vita ai due generali. «La nostra intelligence ha messo in atto ogni sforzo per individuare il covo dal quale la cellula dell’Is aveva ideato l’attacco dei veicoli esplosivi che hanno colpito gli eroici martiri, e l’ha distrutta con missili teleguidati dai nostri aerei ». Il portavoce non aveva ancora finito di dire: «Li vendicheremo, prima o poi», che già la vendetta era compiuta.
Come sono andate davvero le cose, me lo racconta un testimone primario. È la mattina del 27 agosto. I due generali e il loro staff escono dal Comando per dirigersi al campo militare della 10° Divisione Corazzata, quella guidata dal giovane generale, Safeen Majid. È un uomo gentile e schivo, dicono i suoi, che non conosce la paura; è l’unico ufficiale di accademia curdo che ha deciso di restare nell’esercito iracheno. Ad aspettare il loro convoglio ci sono tre automezzi: un Humvee, di quelli che l’esercito iracheno abbandonò nella rotta di Mosul; un camion militare “International”, di quelli che l’esercito iracheno ha ricevuto solo da poco dagli americani; e un Pajero. Hanno targhe e bandiere dell’esercito iracheno. Sapevano tutto: a che ora sarebbero usciti, su quale auto del convoglio si sarebbero trovati. Lo Hummer si scontra con la prima auto della fila, che si blocca. Il camion investe in pieno l’auto sulla quale si trovano i due generali e si fa esplodere. Con loro c’è l’autista, un soldato di scorta all’interno, e uno alla mitragliatrice. Il Pajero sarà fatto esplodere dai soldati iracheni. Il bilancio dichiarato, nelle file irachene, è di 5 morti e 10 feriti: ma sono molti di più, decine.
L’operazione Ramadi è, per il momento — quanto lungo? — decapitata, se così si può macabramente dire. Soprattutto, è dimostrata l’inaffidabilità estrema della sicurezza nel campo della coalizione. Il generale Qasim al Mohammadi, il capo dell’O-OBAMA perazione Al Anbar, è un sunnita di Falluja. È a curarsi una ferita di mortaio a Erbil quando il suo vice viene ucciso. Qasim ha più volte lamentato che i raid aerei nella zona sunnita siano insufficienti, smentito dal comando Usa. Ma a inficiare le sue proteste è soprattutto la debolezza del suo campo, così facilmente infiltrato e demoralizzato. Lo stesso Qasim giura che le milizie sciite sono escluse dal suo comando. Ma è un fatto che alla guerra mortale fra sciiti e sunniti non si è affiancata chiaramente una divisione fra sunniti pro-Daesh e sunniti contro. Il vecchio comandante peshmerga la mette così: «Non tutti i sunniti sono Daesh, ma tutti i Daesh sono sunniti. La Guardia Nazionale sunnita non esiste, e non esiste l’Iraq. Stanno già negoziando con Daesh».
E la vendetta del giorno dopo? Dubito che abbia accreditato ai Falcon dell’aviazione irachena gli attentatori suicidi (fra loro un saudita, un tagiko, un tunisino e un tedesco, pare) dei tre automezzi sui quali i comunicati ufficiali erano stati laconici. Per non abbattere ulteriormente il morale delle truppe… Poi c’è il morale dei capi supremi. Il New York Times ha anticipato ieri i risultati di un’inchiesta sulla manipolazione delle informazioni fornite dai comandi militari in Iraq e Siria al Pentagono e alla Casa Bianca. La storia somiglia a tante altre di tutti i tempi: risalendo dalle trincee ai successivi gradi della gerarchia militare e poi politica, le notizie si edulcorano per soddisfare i palati dei potenti e della pubblica opinione. L’inchiesta constata che «l’Is arretra meno del previsto»: frase a sua volta addolcita perché l’Is, con l’eccezione della frontiera curda, non ha fatto che avanzare. Le cifre dell’impegno americano (e degli altri alleati) sono impressionanti: migliaia di raid aerei, miliardi di dollari. Ma lasciate che ricopi il bollettino — ufficiale — dei raid aerei. Questo è lunedì scorso: «L’aviazione della coalizione ha condotto 22 raid in Siria e Iraq, prendendo a bersaglio le postazioni dell’Is. 4 attacchi di jet e droni in Siria, a Deir ez-Zor, Kobane e Mar’a (Aleppo) hanno distrutto un pezzo di artiglieria e un bulldozer. Altri 18 attacchi aerei in Iraq a Fallujah, Haditha, Kisik, Mosul, Ramadi e Tuz hanno distrutto 6 edifici e 3 veicoli — oltre a militanti dell’Is». Basta leggere questo bilancio per capire che i raid aerei non possono battere l’Is, e nemmeno farla arretrare. I militanti, l’Is ha mostrato di poterli rimpiazzare a sufficienza. (L’Iran, che ha certo il suo interesse a gonfiare le cifre, ha appena sostenuto che sono 100 mila). L’artiglieria pesante, l’Is non la usa allo scoperto, dove è facile bersaglio degli aerei, e la riserva ai luoghi abitati, dove si fa scudo dei civili. A questo punto è la guerra con l’Is.