Cosa ci dicono quei volti dei bimbi in fuga dalla guerra

Cosa ci dicono quei volti dei bimbi in fuga dalla guerra

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HO appena visto un uomo adulto, qui a Erbil, guardare il bambino Aylan e scoppiare in pianto. Scorro la home page di Repubblica .it .
C’è la foto del soldato turco col bambino in braccio, meno terribile, ammesso che sia meno terribile una Deposizione, una Pietà maschile. Nella foto in cui è accanto al fratellino maggiore Galip e alla loro orsacchiotta, Aylan è davvero piccolo e, come si pretende dai bambini, felice: ha gli occhi chiusi perché ride. Sulla spiaggia sembra che dorma, ha detto qualcuno: sembra piuttosto che abbia voltato la testa alla terra, a tutto.
Ci illudiamo che ci siano cose che i bambini non possono capire, dalle quali preservarli. Non è vero. Ci sono cose che i bambini non capiscono perché sono insopportabili a un’intelligenza non ancora spacciata. Partire da una spiaggia di vacanza turca a una spiaggia di vacanza greca di notte, di nascosto, su un battello che un gesto brusco rovescerà: ecco una cosa che un bambino non può capire.
C’è un’altra immagine: alla stazione di Budapest i bravi volontari proiettano un cartone animato per i bambini. Che guardano a bocca aperta e ridono, sono tutti maschietti. «Un momento di spensieratezza». Forse, forse stanno solo facendo contenti i fotografi i volontari e i grandi in genere.
Lo sterminio siriano ha più di quattro anni, Aylan ne aveva 3, Galip 5, erano di Kobane: che cosa restava loro da capire, se non com’è profondo il mare. Altra foto, ancora alla stazione: è la bambina appena partorita da una signora siriana, «un’ambulanza si è rifiutata di portarla in ospedale », l’hanno chiamata Shems, “Speranza”. Un giorno, chissà dove, racconterà perché è nata in una stazione, perché è un po’ siriana un po’ ungherese, e perché si chiama così – spes contra spem, diceva san Paolo di Tarso, oggi Turchia. E c’è, scrive De Luna, il bambino sul cui braccio una poliziotta boema imprime un numero: a metà fra la vecchia infamia e l’estrazione dal mucchio.
L’impaginazione dei giornalisti e, prima di loro, la cronaca quotidiana, ha montato così un prisma del nostro mondo in un giovedì di inizio settembre del 2015, del tempo in cui si torna dopo essersi bagnati nelle stesse acque. Poi ci sono i commenti delle autorità, commossi – «in quanto padre…», rissosi, altruisti – «per favore, non venite in Europa!». Non ci sono dimissioni.
C’è un altro video, sulla home-page, tratto da al-Jazeera. Un ragazzino, ha 13 anni, è siriano, parla con una delle guardie armate. Si chiama Kinan Masalmeh, ha una faccia bella, seria, non è vanitoso, ha due profonde occhiaie nere, non deve aver dormito molto la notte scorsa, gli anni scorsi. Parla un chiaro inglese e ricapitola: «La polizia non ama i siriani in Serbia, in Macedonia, in Ungheria o in Grecia ». Non li ama da nessuna parte. Poi pronuncia la soluzione: « Just stop the war, and we don’t want to go to Europe. Stop the war, just that ». Fermate la guerra, basta questo, e noi non vogliamo più andare (dice andare, non venire: sa di non esserci ancora) in Europa.
«Fermate la guerra, basta questo».
Infatti, basta, bastava questo.
Ci sono cose che i bambini non possono capire. E non riescono a spiegarle ai grandi.


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