Cgil, il rebus democrazia

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La conferenza di organizzazione. Cambiare le regole interne, coinvolgere i precari. Si scontrano due modelli: Camusso punta ad aumentare lo spazio dei delegati, Landini vorrebbe primarie diffuse come in politica. Negli organi elettivi la maggioranza a lavoratori attivi e pensionati. Fischi a Poletti e sfida alle imprese sui contratti: «Tagliano i salari»

È un momento molto com­pli­cato, deli­cato, per la Cgil: attac­cata dal governo e dal ren­zi­smo, scre­di­tata dalle cam­pa­gne di diversi gior­nali, non accet­tata spesso tra i nuovi lavo­ra­tori, che non capi­scono a cosa possa ser­vire un sin­da­cato. Solo il 4% dei suoi 5,6 milioni di iscritti è pre­ca­rio, ati­pico o in par­tita Iva, men­tre una buona metà resta com­po­sta da pen­sio­nati: si deve ten­tare una radi­cale tra­sfor­ma­zione, o si rischia di soc­com­bere, per­ché il pre­mier, Sal­vini, Grillo o le imprese non fanno pri­gio­nieri. Con la Con­fe­renza di Orga­niz­za­zione aperta ieri all’Auditorium di Roma, e che si con­clu­derà oggi, si tenta il colpo di coda: aumen­tare la par­te­ci­pa­zione e la demo­cra­zia interna per ridare vita alle strut­ture, ma il «modello Camusso» è stato già con­te­stato dal lea­der Fiom Mau­ri­zio Lan­dini, che chiede una discus­sione più lunga e approfondita.

La segre­ta­ria gene­rale Susanna Camusso par­lerà oggi, men­tre a spie­gare il nuovo modello di sin­da­cato pro­po­sto dalla segre­te­ria con­fe­de­rale ieri è stato il respon­sa­bile dell’Organizzazione, Nino Baseotto. «Vogliamo che da domani si possa dire — ha spie­gato — che d’ora in avanti qual­siasi segre­ta­rio gene­rale o com­po­nente di segre­te­ria sarà eletto da un orga­ni­smo com­po­sto a mag­gio­ranza da com­pa­gne e com­pa­gni dei luo­ghi di lavoro e delle leghe Spi». «Per un’organizzazione che fin qui, soprat­tutto per quanto riguarda le strut­ture api­cali, ha sem­pre eletto i pro­pri organi ese­cu­tivi col voto pre­pon­de­rante degli appa­rati a tempo pieno, que­sto è un cam­bio di passo signi­fi­ca­tivo, non da poco».

L’uovo di Colombo di Camusso sta­rebbe pro­prio nella rivo­lu­zione delle pro­por­zioni all’interno degli organi elet­tivi: se finora le segre­te­rie e i segre­tari di tutte le strut­ture, fino al ver­tice di Roma, erano eletti da Diret­tivi con il 70–80% di pre­senze dell’apparato (fun­zio­nari del sin­da­cato), adesso si potrà essere eletti solo da orga­ni­smi che pre­sen­tino un 50% più 1 di lavo­ra­tori e pen­sio­nati di lega.

Non saranno più i Diret­tivi a pro­ce­dere alle ele­zioni, ma in occa­sione dei Con­gressi verrà eletta per ogni strut­tura un’Assemblea gene­rale dei dele­gati, com­po­sta appunto da un 50% più 1 di lavo­ra­tori attivi e pen­sio­nati, che pro­ce­derà a votare i can­di­dati pro­po­sti dalle segre­te­rie uscenti. E pro­prio per inter­rom­pere la “con­ti­nuità” con i pas­sati governi, sarà anche pos­si­bile pre­sen­tare altre can­di­da­ture, o auto­can­di­da­ture, che dovranno però rac­co­gliere il 15% delle firme all’interno della stessa Assemblea.

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Non è la libe­ra­liz­za­zione del sistema che vor­rebbe ad esem­pio Lan­dini, che non ha fatto mistero nei mesi scorsi di pun­tare a un mec­ca­ni­smo di pri­ma­rie, che metta uno con­tro l’altro can­di­dati com­ple­ta­mente sle­gati dalle strut­ture. A chia­rire che que­sta sarebbe una rivo­lu­zione troppo netta, e comun­que sgra­dita alla mag­gio­ranza della Cgil, è pro­prio Baseotto: «Nel nostro oriz­zonte — ha spie­gato — non poniamo ten­ta­zioni movi­men­ti­ste o derive ple­bi­sci­ta­rie: restiamo e reste­remo un’organizzazione fon­data sul prin­ci­pio della demo­cra­zia di man­dato». No al «lea­der di turno che sarà poi libero di diri­gere in soli­tu­dine — ha con­cluso — per­ché nes­sun diret­tivo o gruppo di iscritti potrà mai opporsi o rap­por­tarsi alla pari con chi è inve­stito dal man­dato di qual­che milione di persone». Un rife­ri­mento, forse, anche al potere media­tico di Lan­dini, sicu­ra­mente più pre­sente in tv ed espo­sto ai riflet­tori di una più defi­lata Camusso. Il lea­der della Fiom comun­que non si fa imbri­gliare facil­mente, e nei suoi 12 minuti di inter­vento (un sema­foro stacca l’audio al micro­fono se si sfora), cari­chi di cri­ti­che alla segre­te­ria con­fe­de­rale, ieri ha rac­colto diversi applausi, a tratti entusiastici.

Lan­dini non ha reso espli­cita la sua con­tro­pro­po­sta, ma ha chie­sto che «la discus­sione non venga chiusa oggi, con sole 10 ore di dibat­tito, ma che al con­tra­rio, se si vuole con­clu­dere con un docu­mento uni­ta­rio, venga aperta». Per­ché, ha detto, «se hai 5 milioni e mezzo di iscritti, non puoi dire che il con­fronto è stato ampio se ne hai coin­volto sol­tanto 19 mila, pari allo 0,04%». «E il pro­blema non è solo la tra­spa­renza o dire quanto gua­da­gniamo, ma rico­struire un’unità dei lavo­ra­tori, allar­gando ad altri temi, dal red­dito minimo alla scuola, par­lando con quelli che non rap­pre­sen­tiamo, altri­menti saremo sem­pre visti come chi osta­cola il cambiamento».

Oggi si vedrà se la con­clu­sione della Con­fe­renza sarà uni­ta­ria. Si deve aggiun­gere che la Cgil pro­pone la con­trat­ta­zione cosid­detta «inclu­siva» (diritti anche per i pre­cari) e di sito, men­tre si pre­para a pre­sen­tare a breve il nuovo Sta­tuto dei diritti delle lavo­ra­trici e dei lavo­ra­tori, da con­trap­porre al Jobs Act.

Ieri nel pub­blico era pre­sente, seduto in prima fila, il mini­stro del Lavoro Giu­liano Poletti: che non solo ha rice­vuto cri­ti­che dal palco, indi­riz­zate al Jobs Acte alla sua riforma dei con­tratti a ter­mine, ma si è preso anche una bella salva di fischi dal pubblico.

La Cgil ha chie­sto alla Con­fin­du­stria di «rin­no­vare i con­tratti aperti prima di discu­tere di un nuovo modello con­trat­tuale», spie­gando, pole­mi­ca­mente, che le imprese «hanno solo l’obiettivo di ridurre i salari».

Al governo, la Cgil chiede di varare una legge sulla rap­pre­sen­tanza, «tra­du­cendo l’accordo del 2014», e di «rifor­mare le pen­sioni e ade­guare i con­tratti del pub­blico impiego già con la legge di Sta­bi­lità». Urgenze che non si pos­sono scam­biare «con il taglio delle tasse sulla prima casa, soprat­tutto se l’esecutivo pensa di con­ce­derlo a tutti, anche ai ricchi».



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