Il governo di Pechino si giustifica così: questa non è una svalutazione competitiva bensì un avvicinamento ai valori di mercato; dunque è un gesto in linea con quello che la comunità internazionale chiede da anni alla Repubblica Popolare, di avere una moneta che segua gli equilibri della domanda e dell’offerta anziché le direttive politiche. La verità è che il presidente Xi Jinping deve affrontare la sfida economica più seria nell’ultimo quarto di secolo di storia della Cina. La crescita rallenta a vista d’occhio. Quest’anno farà fatica a raggiungere l’obiettivo prefissato, cioè il 7% di aumento nel Pil. Per un Paese di 1,3 miliardi di abitanti, con ampie sacche di sottosviluppo al suo interno, e abituato a crescere del 10% annuo, questo rallentamento è foriero di rischi. Può scatenare una crisi bancaria, dopo le avvisaglie di sgonfiamento della bolla speculativa alla Borsa di Shanghai. Possono nascere tensioni sociali, incrinando il controllo del partito comunista. Visto che la domanda interna non è più così vigorosa come in passato, indebolire il cambio nell’immediato offre un aiuto concreto all’industria esportatrice, quella che ha generato il boom dell’occupazione cinese nell’ultimo quarto di secolo. Le prime vittime sono i Paesi più vicini e più simili alla Cina, i suoi diretti concorrenti: Bangladesh, Vietnam, Indonesia, Filippine. Sono quelli che avevano goduto i benefici delle ultime ondate di delocalizzazione: la stessa industria cinese del tessile- abbigliamento e delle calzature, che ha subito ondate di scioperi a casa sua e ha dovuto alzare i salari, aveva cominciato a spostare alcune produzioni nel suo “hinterland” asiatico. Ora quelle nazioni emergenti devono vedersela con un made in China che costa meno. A catena sono colpiti tutti i Brics e dintorni: una svalutazione cinese fa sentire i suoi effetti in Africa, America latina, nonché tra i produttori di materie prime come Canada e Australia. L’Europa non è affatto immune da questi contraccolpi. Un renminbi più debole significa per noi due cose: da ieri il made in China costa un po’ meno, e i nostri prodotti diventano più cari sul mercato cinese. Questo handicap si aggiunge ad un altro fattore che aveva penalizzato di recente il lusso made in Italy. Si tratta della campagna anti- corruzione lanciata da Xi Jinping. Con la caccia ai funzionari comunisti che intascano tangenti, e i processi spettacolari contro alcuni Vip della nomenclatura, Xi ha scoraggiato certi consumi voluttuari dove venivano spesi i frutti della corruzione. Dai ristoranti di lusso agli abiti firmati, una serie di prodotti europei risen- tono di questo nuovo clima austero. Ora la svalutazione del renminbi si aggiunge nel rendere più difficile il lavoro degli esportatori italiani ( e non solo loro). Questo vale ovviamente anche per il lusso francese; vale un po’ meno per l’alta tecnologia tedesca che tradizionalmente ha un ampio mercato di sbocco in Cina ma per sua natura è meno sensibile alle variazioni di prezzo.
Le ripercussioni del renminbi si faranno sentire perfino sulla politica americana. La svalutazione competitiva diventa subito materiale da campagna elettorale. Già ha preso posizione un importante senatore democratico, Charles Schumer, dichiarando che bisogna negare al renminbi lo status di “moneta di riserva”. E’ il Fondo monetario internazionale che deve decidere entro la fine dell’anno se ammettere il renminbi tra le sue riserve ufficiali, insieme con dollaro, euro, sterlina e yen giapponese. Poi nel 2016 sarà il momento di un’altra decisione cruciale: se dare o meno alla Repubblica Popolare il riconoscimento di “economia di mercato” in seno all’Organizzazione mondiale del commercio, un passo che renderebbe più difficile colpirla con misure di difesa anti-dumping. Mentre Barack Obama sta cercando di concludere i negoziati di libero scambio con i paesi alleati (il Tpp nell’area Pacifico col Giappone, il Ttip con l’Europa), a casa sua cresce la spinta protezionista. Tanto più che il dollaro si è rafforzato negli ultimi mesi verso tutte le monete del mondo. La “guerra delle monete”, in coincidenza con una crisi economica cinese e con una campagna presidenziale americana, è un cocktail che può diventare esplosivo.