Tra volontari e skinhead così Berlino accoglie i suoi 20 mila rifugiati

by redazione | 30 Agosto 2015 9:01

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BERLINO. SULL’INGRESSO della tenda bianca, la ragazza con il velo esita a prendere l’omogeneizzato che la dottoressa le porge. «No pork, no pork!», dice il medico, senza però convincere la rifugiata siriana, che resta dubbiosa. Ma la dottoressa non molla: rimugina sulle tre parole d’arabo che conosce, poi si illumina: «Halal! ». È halal l’omogeneizzato, non c’è carne di maiale, il bambino che aspetta seduto su un lettino d’emergenza può mangiare tranquillo, senza violare le regole dell’islam. La mamma sorride, il medico si rilassa. E riprende il servizio, da una fila a una tenda, a curare insolazioni e qualche caviglia slogata nel giardino del Lageso, come lo chiamano i berlinesi, l’Ufficio regionale per la sanità e gli affari sociali del quartiere di Moabit.
La sera è fresca, ma ci sono le coperte distribuite dai volontari dell’associazione Moabit Hilft (“Moabit aiuta”). Si riconoscono per il nome scarabocchiato su un pezzo di nastro adesivo giallo, appuntato sul petto come una decorazione. Senza i volontari, sarebbe la catastrofe: le file interminabili davanti agli sportelli per la registrazione dei richiedenti asilo confermano che l’ufficio di prima accoglienza è sommerso dall’ondata inattesa. Da gennaio sono arrivati nella capitale 19 mila profughi, quattromila solo in agosto. E nel giardino sono forse duemila, affidati alla Caritas e alle organizzazioni di volontari, in attesa di essere poi distribuiti negli ostelli gestiti dai Länder.
Yelena, partita da Kishinev, in Moldova, corre a mettersi in fila con un neonato appeso al braccio. Lei e la sua famiglia hanno attraversato l’Austria con un pullmino, pagando cento euro a testa. Seduti in un’aiuola, tre siriani di Aleppo non danno retta alla piccola Hanya, che a sei anni su quel prato vorrebbe giocare, non guardare il papà e gli amici che digitano sul telefonino. «Abbiamo speso 1.500 euro a testa per arrivare qui via Turchia/Grecia/Macedonia/ Serbia/Ungheria. Perché volevamo vivere in pace».
Poco lontano, nell’edificio R, fra cassette di acqua minerale e pacchi di pannolini, c’è una riunione di Moabit Hilft. Laszlo Hubert, il coordinatore, prende fiato. Intervista? impossibile. Qualche battuta al volo, tutt’al più, con interruzioni per i rifugiati, per i volontari, per i donatori. Bisogna organizzare gli aiuti, prendere in consegna tutto quello che i berlinesi portano: abiti, alimenti, coperte, passeggini, e soprattutto entusiasmo.
Le strutture statali non bastano, l’emergenza è tale che anche il potente governo Merkel ha il fiato corto, così la stampa sollecita la mobilitazione, che è partita in tutta la Germania all’insegna dello spirito civico, ma anche della fantasia. Accanto ai due insegnanti svevi che hanno preparato un corso di tedesco, ci sono i ragazzi di Karlsruhe che hanno varato “Biciclette senza frontiere”: accolgono e riparano due ruote usate per poi distribuirle ai rifugiati. Accanto al comune di Münster Sarmsheim, in Renania, che ha chiesto al governo di accogliere più profughi, c’è la squadra di calcio di Babelsberg che ha schierato la sua formazione N.3 composta di soli immigrati. C’è chi offre accesso a Internet e chi fiabe lette a voce alta, chi porta passeggini e sacchi a pelo e chi offre un posto alla propria tavola, o addestramento alla boxe, o lezioni di teatro.
Anne, commessa a Kreuzberg, scarica dalla bici barattoli di liquido per bolle di sapone e canestri di plastica, destinati ai giovanissimi. «Vengo dalla Sassonia, voglio fare qualcosa per compensare quello che hanno combinato dalle mie parti. Non siamo tutti come ad Heidenau». Sarah, che studia da maestra d’asilo, garantisce che l’esperienza con i disperati l’ha cambiata: «Sognavo un lavoro con gente ricca. Ora ho capito che ci sono cose più importanti. Sono appagata dal sorriso di questi bambini». Laszlo cerca qualcuno che parli urdu per un rifugiato pachistano, poi vuole assistenza in italiano. È per un marocchino venuto da Cosenza, che dice con accento calabrese: «Sono arrivato per chiedere asilo, in Italia lavoro non ce n’è più». Ibrahim si guarda intorno smarrito, mostra i documenti: è fuggito da Raqqa, la capitale di Al Baghdadi. Mohamed è scappato da Damasco, meglio la Germania, anche se non per sempre: «Il futuro? In Siria, dopo aver studiato qui a Berlino».
Alle otto arriva una cinquantina di poliziotti con caschi e protezioni. Devono controllare l’uscita dei profughi, che non possono restare nel cortile del Lageso dopo la chiusura degli uffici. E scoraggiano eventuali attacchi di skin- head o razzisti. Gli insulti e le minacce non mancano: nei giorni scorsi sono arrivati due allarmi bomba, con telefonate anonime. Alla sbarra dell’ingresso, Ahmad ferma tutti, uno per uno: «Hai un posto dove andare?», chiede. Chi non ce l’ha, viene indirizzato alla lista delle disponibilità, dove semplici cittadini hanno segnalato di avere un letto in più. «Più profughi arrivano, meglio reagisce la gente. Nessuno crede più alla politica, così l’energia che prima si spendeva in un partito, o per un’ideologia, si trasforma in gesti concreti. Vengono persone di ogni genere, giovani e anziani, disoccupati o milionari», racconta Laszlo. «Ma mi resta un timore. I giornali incitano a mobilitarsi, la gente si accalca a portare aiuti, ma l’atmosfera può cambiare. Non vorrei che alla fine passasse l’idea che lo Stato non ce la fa. E che serve qualcuno in grado di decidere».
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