PECHINO . Per il terzo giorno consecutivo la Cina ha svalutato ieri lo yuan, ma la reazione dei mercati è stata opposta al panico dei due giorni precedenti. La Banca centrale di Pechino è scesa in campo per rassicurare investitori e governi stranieri, promettendo che il crollo-record del renminbi è quasi concluso e che dipende da un nuovo meccanismo del tasso di cambio, più orientato ai valori reali di mercato.
«Lo yuan – ha garantito l’istituto – nel lungo termine resterà forte». Le Borse hanno creduto alle prospettive di una Cina più stabile e competitiva, piuttosto che alla realtà della crisi del suo modello di sviluppo. Il rally ha accomunato le piazze asiatiche a quelle europee, tutte in positivo, ma la discesa dello yuan non sembra finita e sui mercati aleggia la volatilità. Londra ha chiuso piatta, Milano a più 1,56%, Francoforte a più 0,82%. Ieri il taglio del valore dello yuan è stato dell’1,1%, il più basso delle ultime 36 ore. Martedì era sceso dell’1,9% e mercoledì dell’1,6. In tre giorni la valuta cinese ha ceduto il 4,65% sul dollaro, cambiato ora a 6.40, alimentando le voci di una guerra più contro la divisa statunitense, che verso quelle dei vicini asiatici e dell’eurozona. L’allarme internazionale e i 227 miliardi bruciati tra martedì e mercoledì sembrano però aver scosso i leader della seconda economia mondiale. La Banca del popolo ha garantito che «non c’è alcun motivo per un deprezzamento prolungato » e che è «pronta ad intervenire in caso di distorsioni eccessive». A Pechino era circolata la voce che una svalutazione competitiva potrebbe arrivare fino al 10%, per spingere davvero un export in crisi, far ripartire le industrie nazionali, scongiurare lo spettro disoccupazione e accelerare la crescita dei consumi interni. Il vice governatore Yi Gang ha definito «assurda» l’ipotesi, assicurando che «la Banca centrale è in grado di mantenere il renminbi fondamentalmente stabile, a un livello ragionevole ed equilibrato». Mercati e governistranieri hanno interpretato la dichiarazione come il segnale che «l’aggiustamento è praticamente terminato» e che la Cina non intende scatenare una nuova guerra delle valute. Il sistema dei cambi continua a proteggere lo yuan, che lo Stato lascia libera di fluttuare ogni giorno non più del 2% sul dollaro. Ora però il fixing valutario cinese non terrà più conto solo di un sondaggio tra i mercati, ma anche del valore medio del giorno precedente e del rapporto domanda-offerta tra le principali monete. Uno yuan più orientato al mercato, come invocato dagli stessi Usa, è la ragione che spinge Fmi e Borse a promuovere la riforma voluta dal presidente Xi Jinping. Per gli investitori, al di là del primo disorientamento, un renminbi meno forte, indebolito fino a un 5% dopo una crescita ipertrofica del 14% (18% considerata l’inflazione) in un anno, nell’immediato non è un dramma. Negli ultimi anni gli esportatori stranieri si sono sempre confrontati, senza soffrire, con uno yuan più debole. Nel 1994, giorno dell’ultimo crollo da primato, la svalutazione arrivò al 33% e fu il preludio al più formidabile ventennio di crescita del Pil, capace di arginare anche le crisi del capitalismo. Asia e Occidente in queste ore dimostrano così di accettare che la nuova super-potenza economica del secolo si doti di una moneta pienamente convertibile, internazionalizzata e adottata quale valuta di riserva, al livello di dollaro, euro, yen e sterlina. Il problema è capire se realmente Pechino intende affidare lo yuan al mercato, quale sarà nel medio periodo il limite del suo valore e se la svalutazione consentirà alla leadership cinese di proseguire lungo il sentiero delle promesse riforme liberiste.
A sorpresa il grande malato dell’economia globale oggi è la Cina, non la sua valuta: la speranza di una sua ripresa prevale dunque sulla paura di una concorrenza più costosa.